La legge Gelli richiede che il giudice di merito si soffermi con accuratezza sull’inquadramento delle condotte del medico imputato (nel caso de quo l’ imperizia).

Ed è proprio su questo tema (colpa per imperizia) che è intervenuta la Suprema Corte, Quarta Sezione Penale, Relatore dott. Giuseppe Pavich, con la sentenza n. 24384 depositata il 30 maggio 2018.

I fatti.

La Corte territoriale ha confermato la condanna di un medico per l’omicidio colposo di una paziente deceduta a causa delle complicazioni seguite ad un intervento chirurgico eseguito dal sanitario imputato.

L’accusa era quella di avere sottovalutato la situazione clinica della paziente, che era stata sottoposta a un intervento chirurgico di plastica laparotocele e revisione della cicatrice in seguito a pregressa isterectomia ombelico-pubica, omettendo di effettuare accertamenti diagnostici e approfondimenti necessari a fronte delle complicanze sorte nel decorso post operatorio.

In particolare il giudice del merito contestava all’imputato l’imprudenza della sua condotta escludendo la rilevanza dell’osservanza delle linee guida che, a parere della difesa avrebbe escluso la punibilità ex art. 590 sexies c.p.c., introdotto dalla c.d. legge Gelli-Bianco.

La pronuncia viene impugnata con ricorso per cassazione censurando i criteri della colpa professionale addebitata al sanitario in termini di imprudenza.

Gli Ermellini ritengono fondata la censura poiché la motivazione offerta dalla Corte d’Appello si fonda sostanzialmente nel rimprovero di non aver preso in considerazione una diagnosi differenziale rispetto ai sintomi lamentati dalla paziente omettendo una adeguata valutazione.

Non viene però specificato quali fossero i sintomi che potevano essere diversamente interpretati.

In tal modo la Corte territoriale ha omesso di valutare temi importanti nella valutazione della condotta colposa nell’esercizio della professione sanitaria.

L’osservanza delle best practices.

Gli Ermellini osservano che nel lungo percorso argomentativo della sentenza d’appello non é dato apprezzare alcuno specifico riferimento ad elementi probatori o valutativi che consentano di escludere o di affermare l’adesione dell’operato del sanitario alle best practices. Questo passaggio era tuttavia ineludibile, perché, come noto, l’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi parlava non solo di “linee guida”, ma anche di “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”, disponendo che l’esercente la professione sanitaria che si atteneva ad esse non rispondeva penalmente per colpa lieve; l’art. 590-sexies, comma secondo, cod. pen. (introdotto dall’art. 6 della legge Gelli-Bianco) stabilisce dal canto suo che, quando l’evento lesivo o mortale si é verificato per imperizia, la punibilità é esclusa qualora siano rispettate le raccomandazioni contenute nelle linee guida approvate ai sensi di legge, o, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le suddette raccomandazioni siano adeguate alle specificità del caso concreto.

Ma come va inquadrata la condotta colposa del sanitario?

Un altro aspetto che la Corte di Cassazione esamina riguarda il fatto che la Corte d’appello ha inquadrato la condotta del sanitario come imprudente, piuttosto che negligente o imperita. Solitamente e con imprecisione, si tende ad ascrivere alla categoria dell’imperizia il comportamento del soggetto inosservante delle regole cautelari perché “inesperto”, soprattutto sul piano esecutivo; alla categoria della negligenza il comportamento del soggetto inosservante per non avere fatto ciò che era doveroso fare; alla categoria dell’imprudenza il comportamento del soggetto inosservante per avere fatto ciò che era doveroso non fare.

In contrasto con precedenti orientamenti giurisprudenziali, recentemente, la Corte regolatrice ha riconosciuto che il principio civilistico di cui all’art. 2236 cod. civ., che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave “può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza, in quanto la colpa del terapeuta deve essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si é svolto”.

Con l’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, il parametro dell’imperizia ha assunto maggior rilievo e, dopo una travagliata vicenda interpretativa, la questione della corretta interpretazione da dare all’ art. 6 della L. n. 24/2017 (introduttivo dell’art. 590-sexies cod.pen.) é stata devoluta alle Sezioni Unite, che, con la sentenza resa il 21 dicembre scorso (Sez. U, n. 8770 del 21/12/2017, ric. Mariotti), hanno affermato il seguente principio di diritto: “L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si é verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si é verificato per colpa (anche “lieve’) da imperizia quando il caso concreto non é regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si é verificato per colpa (anche “lieve’) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si é verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico”.

La legge penale più favorevole.

Uno dei problemi che deriva da tale assetto interpretativo è rappresentato dalla individuazione della legge penale più favorevole con riferimento ai singoli casi concreti, anche risalenti ad epoca antecedente rispetto agli ultimi interventi legislativi, in base a quanto prevedono le norme dettate in tema di successione delle leggi penali nel tempo.

La Suprema Corte osserva che il giudice del merito non poteva prescindere da un accurato inquadramento della condotta del medico non solo con riguardo al fatto che la stessa rispettasse o meno le linee guida o le buone pratiche, ma anche con riguardo al fatto che la stessa potesse qualificarsi come improntata a imperizia o a negligenza o a impridenza

Anche se la Corte territoriale ha qualificato il comportamento del sanitario come imprudente, deve sottolinearsi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’imprudenza consiste nella realizzazione di un’attività positiva che non si accompagni nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l’ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell’incolumità e degli interessi propri ed altrui (cfr. Cass., n. 16944 del 2018).

Nel caso de quo la condotta tenuta dal sanitario più che un’attività positiva, sarebbe consistita in un’omessa o incompleta diagnosi, accompagnata da una sottovalutazione della sintomatologia che la paziente presentava, dall’omessa prescrizione di accertamenti strumentali a fini diagnostici e dalla prescrizione di un presidio terapeutico generico (clistere).

Tanto sembra ascrivibile in parte al profilo della negligenza e, in parte, e sotto altro profilo, a quello dell’imperizia.

Ed è proprio con riferimento all’imperizia che è errato escludere che nella specie potesse parlarsi di imperizia solo per il fatto che il sanitario era un clinico di sicuro valore; infatti, la nozione di imperizia non va rivolta al soggetto nella sua complessiva attività e alle sue capacità professionali, ma al singolo atto qualificato come colposo e che viene a lui addebitato. Come è stato chiarito a seguito della sentenza a Sezioni Unite Mariotti, la disciplina dettata dal comma primo dell’art. 3 della legge n.189 del 2012, è, nella maggioranza dei casi, la più favorevole, anche rispetto alla previsione, ulteriormente sopravvenuta, contenuta nell’art. 590-sexies introdotto dalla successiva legge Gelli-Bianco, con tutto ciò che ne consegue in punto di individuazione della lex mitior ai fini di cui all’art. 2 del codice penale.

Ebbene, la Corte d’appello, con riferimento ai suddetti profili, si occupa solamente del fattore-tempo, e lo fa non affidandosi ad un corretto e adeguato esame delle risultanze probatorie sul punto, ma sulla scorta di tutta una serie di considerazioni che tendono ad ampliare il lasso di tempo nel corso del quale il medico avrebbe potuto fare qualcosa.

Non chiarisce, inoltre, se il comportamento che ci si sarebbe dovuti attendere da lui fosse tale da rendere oggettivamente, tempestivamente e utilmente praticabile l’adozione dei necessari e conseguenti presidi diagnostico-terapeutici.

Gli Ermellini, in virtù dell’approccio probabilistico seguito al riguardo dal collegio peritale, richiamano l’indirizzo della stessa Corte di legittimità in base al quale il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (cfr. Cass., n. 26491 del 2016).

Per gli Ermellini, nel percorso interpretativo della Corte territoriale, e anche in quello seguito dal Tribunale di primo grado, trattandosi di doppia conforme, siffatta indagine “non è stata adeguatamente condotta ed ha lasciato delle zone d’ombra” sia per ciò che attiene la ricostruzione del rilievo causale del comportamento addebitato al sanitario rispetto al decesso della paziente, sia nell’accertamento della portata salvifica del comportamento che lo stesso avrebbe dovuto tenere nell’occorso, tenuto conto dell’evolversi delle condizioni patologiche della donna.

La decisione impugnata è stata pertanto annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma.

 

Avv. Maria Teresa De Luca

 

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