Le insistenti richieste della madre, rivolte al medico curante, di effettuare test clinici sul nascituro, rimaste del tutto inascoltate, devono considerarsi sufficientemente sintomatiche dell’intento di abortire nel caso in cui fosse stata riscontrata una grave anomalia nel feto
La vicenda
Con sentenza del 2005 il Tribunale di Camerino condannava la struttura sanitaria in cui esercitava la professione di ginecologo, solidalmente responsabili per il danno morale, biologico e patrimoniale causato dalla nascita, non desiderata, di una bimba affetta da sindrome di Down, dopo che il medico si era rifiutato di svolgere esami e test prenatali sulla gestante a causa del cerchiaggio che le era stato praticato, per cui le aveva sconsigliato ogni pratica invasiva sul feto.
Anche in appello la sentenza di condanna veniva confermata sull’assunto che le insistenti richieste della madre, rivolte al medico curante, di effettuare test clinici sul nascituro, rimaste del tutto inascoltate, fossero sufficientemente sintomatiche dell’intento di abortire nel caso in cui fosse stata riscontrata una grave anomalia nel feto, sussistendo all’epoca entrambe le condizioni legittimanti l’interruzione di gravidanza di cui all’art. 4 e alla L. n. 194 del 1998, art. 6.
La corte territoriale riformava tuttavia, la decisione impugnata in ordine al quantum debeatur, riducendo il risarcimento del danno biologico e patrimoniale conseguente alla omessa effettuazione di test diagnostici richiesti durante la gravidanza al proprio medico curante; inoltre negava la sussistenza del danno morale riconosciuto dal Tribunale come ulteriore voce di danno alla persona, ritenendolo assorbito nel danno biologico, di tipo psichico e permanente, riconosciuto nella misura del 20% alla madre. Riteneva inoltre, non dovuto il danno morale, in considerazione del riconoscimento del danno biologico.
La vicenda giudiziaria si è conclusa con la pronuncia della Terza Sezione Civile della Cassazione che ha confermato in via definitiva la condanna per il medico e la struttura sanitaria.
Il ricorso per Cassazione
Con un primo motivo di ricorso il ginecologo censurava la decisione impugnata sull’an debeatur, ritenendo che l’onere della prova dell’intento abortivo, gravante sulla madre, non fosse stato assolto.
Non era così per i giudici della Cassazione.
Ed infatti, nella decisione impugnata si rilevava che la volontà della madre, all’epoca trentaseienne, doveva ritenersi espressa implicitamente, dalle sue insistenti richieste di effettuare una diagnosi prenatale, rifiutate dal medico curante a causa del c.d. cerchiaggio praticatole come terapia antiabortiva; nonché dalle statistiche sul ricorso ad interruzione in caso di feti malformati che mostrerebbero un’alta percentuale di richieste di interruzione della gravidanza in caso di preventiva conoscenza di malformazioni di tale tipo.
Sul punto è stato richiamato il principio reso dalle Sezioni Unite della Cassazione, in base al quale, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale (v. SU Cass. 25767/2015; Sez. 3, Sentenza n. 24220 del 27/11/2015).
Pertanto nel caso in esame non vi era stata violazione degli oneri probatori, soprattutto in relazione all’onere assolto in via presuntiva dalla madre (attraverso la prova di circostanze concrete da cui si poteva risalire per via induttiva a una volontà in tal senso).
Parimenti corretta era la valutazione operata dai giudici di merito in ordine alla identificazione del danno risarcibile.
La Corte d’appello aveva applicato correttamente i principi di diritto cristallizzati nella sentenza a SSUU n.26972/2008 secondo cui: In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 901 del 17/01/2018).
Conseguentemente, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del “danno biologico” e del “danno dinamico-relazionale”, atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale).
Non costituisce invece, duplicazione la congiunta attribuzione del “danno biologico” e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione).
Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (v.Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018).
Fondato era invece il ricorso inerente alla quantificazione del danno psichico.
È ben noto che il danno psichico è per sua natura soggettivo e può acquisire una diversa dimensione a seconda del soggetto su cui incide.
Ebbene, i giudici della Cassazione, ribaltando la prospettiva operata dalla Corte di merito, hanno affermato che la madre doveva ritenersi giustamente menomata nella sua sfera psichica in ragione dell’evento lesivo riconducibile all’operato del medico e che, per più fattori non autonomamente concorrenti, tale lesione non le aveva permesso di rielaborare psicologicamente il fallimento dato da una nascita indesiderata, di reggere la lunghezza e complessità di un accertamento giudiziale di un evento lesivo interferente nella sua vita personale di donna, moglie e madre, e di sopportare il peso di una vita sociale compressa e dedicata esclusivamente a una figlia diversamente abile che non sarà mai in grado di diventare autonoma.
«Lo stesso evento avrebbe potuto non incidere psichicamente su una persona con diverse storia e tenuta psichica, o incidere in misura minore. Quella accertata è pertanto la misura del (suo) danno alla persona eziologicamente collegato all’evento lesivo cui la Corte avrebbe dovuto attenersi, senza operare operazioni di scomposizione matematica in base alle diverse concause concomitanti o successive che lo hanno ipoteticamente determinato».
La redazione giuridica
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