In tema di divieto di licenziamento in caso di gravidanza la previsione di cui all’art. 19 D.L.vo n. 151/01, nel considerare a tutti gli effetti come malattia l’interruzione spontanea o volontaria della gravidanza è disposizione di tutela della lavoratrice, che non elide tuttavia il disposto dell’art. 54 D.L.vo n. 151/01 nella parte in cui impone il divieto di licenziamento durante la pregressa gravidanza e sanziona di nullità il licenziamento intimato in violazione di tale divieto; la previsione del divieto di licenziamento, nell’ipotesi di interruzione della gravidanza entro il 180° giorno dal suo inizio, va tuttavia interpretata nei limiti in cui può avere un senso, dovendosi quindi escludere la perdurante efficacia del divieto stesso “fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino, trattandosi di cadenze temporali che necessariamente, nella suddetta ipotesi, non possono verificarsi. Ne discende che non è condivisibile l’opzione ermeneutica propugnata dalla ricorrente, secondo cui in caso di interruzione della gravidanza entro il 180° giorno non potrebbe ritenersi la nullità del licenziamento intimato mentre la gravidanza era ancora in corso, ma neppure la diversa (e contestata) opzione secondo cui, anche in caso di aborto, l’art. 54 D.L.vo n. 151/01 sarebbe applicabile nella sua integrale disposizione letterale, ossia con la previsione (assurda e anche per ciò da escludersi) di un divieto di licenziamento che si estenderebbe fino ad un termine finale irrealizzabile)”.

Ad affermarlo, la Suprema Corte di Cassazione – Sezione Lavoro, che con la sentenza in commento, la n. 14723/2015, depositata lo scorso 14 luglio 2015, stabilisce un principio ad oggi non ancora espresso nella stessa giurisprudenza di legittimità e che, per tali motivi merita particolare attenzione.
Occorre, sin da subito individuare i punti chiave della citata questione, partendo per ovvie ragioni di logicità espositiva dalla normativa attualmente applicabile alla materia.
Ebbene, la disciplina e la tutela della maternità ha il proprio fondamento giuridico nella Costituzione (artt. 3 e 37), nella Legge 30 dicembre 1971, n. 1204 e nel relativo regolamento di attuazione D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026, questi ultimi poi riuniti ne Testo Unico approvato con D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151.
L’intento era preliminarmente quello di creare un raccordo tra la protezione della gravidanza, la maternità e la parità di trattamento, che nel nostro ordinamento trova espressa garanzia costituzionale, secondo quanto disposto dall’ art. 2 Cost., ove si sancisce che “il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente”, stabilendo di seguito che tale principio “non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna.  In particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità”.
Cosicché, a tutela della lavoratrice madre, il legislatore, in considerazione delle ragioni finora esposte, e con esse, spinto anche dall’esigenza di proteggere la funzione familiare della donna, ha vietato il licenziamento intimato durante la maternità e in prossimità di tale evento, con salvezza delle sole giustificazioni tipiche e tassative fissate dalla stessa legge e con onere della prova a carico del datore di lavoro. Tutto ciò va letto considerando che dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino non possono derivare in concreto né un impedimento alla realizzazione dell’effettiva parità dei diritti della donna lavoratrice, né conseguenze discriminatorie per la lavoratrice madre.

In particolare, l’art. 54 del già citato, D.L.vo n. 151/2001, dispone espressamente che “le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino (comma 1); e che, suddetto divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza” ( comma 2).

Il divieto di licenziamento, dall’inizio dell’astensione fino al compimento di un anno di età del bambino, si applica anche al padre lavoratore che si astenga dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio in mancanza della madre (morte, grave infermità, abbandono, affidamento esclusivo al padre) (art. 54, co. 7, D. Lgs. n. 151 del 2001).
Il licenziamento della lavoratrice durante il periodo di operatività del divieto è nullo e come tale improduttivo di effetti giuridici, con diritto della lavoratrice alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno subito (art. 54, co. 5). La c.d. Riforma Fornero ha, poi, ricondotto il licenziamento nullo, in quanto intimato nel periodo contiguo alla maternità, nella tutela reintegratoria piena di cui all’ art. 18, così come modificato dalla suddetta legge.
Altro aspetto che certamente non può essere trascurato e che, al contrario merita particolare attenzione è quanto disposto dal comma 2 dell’art. 54 citato, per cui come anticipato, il suddetto divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza.

Ebbene, a ben vedere, l’operatività del divieto di licenziamento non è collegato alla presentazione di tale certificato, bensì all’inizio dello stato oggettivo di gravidanza. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, la lavoratrice gestante non ha l’obbligo di rendere edotto il proprio datore di lavoro del proprio stato al momento della stipula del contratto, anche se si tratta di un contratto a termine.
Nella nostra legislazione, come è stato più volte osservato e contrariamente ad altri ordinamenti – come ad esempio in Germania il Mutterschutzgesetz (legge tedesca sulla maternità) o in Austria dove l’art. 10 della legge sulla maternità (MSchG) prevede che «Le dipendenti non possono essere legittimamente licenziate durante il periodo di gravidanza, né nei 4 mesi successivi al parto, purché abbiano informato il datore di lavoro della loro gravidanza o del parto. Il licenziamento è altresì illegittimo quando il datore di lavoro è informato della gravidanza o del parto entro 5 giorni lavorativi a decorrere dalla comunicazione del licenziamento (…) Nel comunicare la sua gravidanza o il parto nel termine di 5 giorni, la lavoratrice deve contestualmente fornire certificato medico attestante la gravidanza (…)» non vi è alcun obbligo per la lavoratrice di comunicare il proprio stato di gravidanza, né al momento della stipula del contratto, né successivamente.
Il diritto alla conservazione del posto di lavoro opera, dunque, in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio, a nulla rilevando la conoscenza o meno della situazione protetta da parte del datore di lavoro, al momento del licenziamento.
In questo senso, si è pronunciata di recente la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha statuito che “Il licenziamento intimato alla lavoratrice in stato di gravidanza, anche nel caso di inconsapevolezza del datore di lavoro – non avendo questi ricevuto un certificato medico attestante la situazione personale della dipendente – costituisce un recesso “contra legem” (Cass. 3 marzo 2008, n. 5749).
Sicché, nulla quaestio sulla nullità del licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza, a prescindere dallo stato di contezza o meno del fatto da parte del datore di lavoro. Quanto al ripristino del rapporto di lavoro, sarà sufficiente la presentazione, entro il termine di 90 giorni dal licenziamento del certificato medico da cui risulti la sussistenza dello stato di gravidanza dal momento del licenziamento medesimo.
Se tutto ciò è vero, è pur vero altresì che le vicende del prosieguo della gravidanza possono essere fisiologiche (nascita di un bambino vivo e sua sopravvivenza) ma anche molto spesso (purtroppo) a vario titolo patologiche.
E pertanto, a tal riguardo assume particolare rilevanza la tutela garantita alla lavoratrice nel’ipotesi di licenziamento intimato in un periodo in cui la stessa doveva ritenersi in stato di gravidanza, si pensi ad esempio, all’ipotesi di interruzione di gravidanza.
Si è detto (M. PERSIANI – F. CARINCI, Trattato di diritto del lavoro, Contratto di lavoro e organizzazione, Tomo I, a cura di M. MARTONE, Cedam, 2012) )che ai confini della tutela tra malattia e maternità si colloca l’interruzione della gravidanza.
Se, infatti, il procurato aborto, esclude il diritto all’indennità di malattia, l’interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria, nei casi previsti dagli articoli 4,5 e 6 della legge 22 maggio 1978, n. 194, avvenuta entro il 180° giorno dal’inizio della gestazione, è considerata a tutti gli effetti come malattia (art. 19, 1° comma, d.lgs. 26 marzo 2011, n. 151 – sul punto si veda la risposta a interpello del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali n. 32 del 19 agosto 2008, che considera l’aborto come malattia determinata da gravidanza, stante la connessione naturale tra i due eventi, (nella specie l’interruzione spontanea o terapeutica, della gravidanza che si verifichi prima del 180° giorno dall’inizio della gestazione si considera aborto, mentre l’interruzione spontanea, o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione è considerata come parto a tutti gli effetti.) e quindi deve essere inquadrata nell’ambito di applicazione dell’art. 20, d.p.r. 25 novembre 1976, n. 1006 secondo cui non sono computabili, agli effetti della durata prevista da leggi, a regolamenti o da contratti collettivi per il trattamento normale della malattia, i periodi di assistenza sanitaria per malattia determinata da gravidanza ancorché non rientrante nei casi previsti dalla lettera A) dell’art. della legge n. 1204/1971, (norma abrogata, ora cfr. l’art. 17, 2 comma, d.lgs. n. 151/2001 (gravi complicanze della gravidanza o preesistenti forme morbose che di presume possano essere aggravate dallo stato do gravidanza) o da puerperio.
Per il computo dei periodi di cui sopra, opera una presunzione legale per cui si presume coincidente con il trecentesimo giorno antecedente alla data presunta dal parto risultante dal certificato medico di gravidanza. Secondo la Cassazione (sentenza n. 1067 del 3 marzo 1978) la presunzione non ha valore assoluto.
Al fine, dunque, di stabilire se la lavoratrice, che abbia interrotto spontaneamente o per terapia la gravidanza, abbia diritto alla tutela assicurativa delle lavoratrici madri oppure alla tutela spettante in caso di aborto occorre accertare il giorno d’inizio della gestazione, poiché – come già detto – s’intende per aborto l’interruzione della gravidanza antecedente al centottantesimo giorno dall’inizio della gestazione e si considera a tutti gli effetti come parto l’interruzione successiva al detto 180° giorno; per il suddetto fine, la presunzione posta dalla legge – secondo cui il certificato medico di gravidanza indica la data presunta del parto e fa stato a tale riguardo, nonostante qualsiasi errori di previsione – non è assoluta, per cui qualsiasi successivo mezzo attendibile, quale un certificato medico redatto sulla base dell’esame del feto, può servire meglio a determinare il giorno d’inizio della gravidanza.

Per riassumere, la legge, prevede che qualora l’aborto o l’interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza avvenga oltre il 180° giorno dall’inizio della gravidanza, il divieto di licenziamento opera fino a tre mesi successivi all’evento; nel caso, invece, di bambino nato morto o deceduto nei primi tre mesi di vita il divieto è attivo per tutto il periodo di interdizione dal lavoro fino a dieci giorni successivi alla data del decesso. Il divieto di licenziamento non opera altresì qualora l’aborto avvenga nei primi 180 giorni dall’inizio della gestazione.
Quando interviene un’interruzione della gravidanza dopo il 180° giorno, poiché tale situazione è qualificata come “parto” dall’art. 12 del D.P.R. n. 1026/76, la madre ha tutti i diritti connessi come nel caso del bambino nato morto e quindi il divieto di licenziamento sussiste per il periodo di congedo di maternità.
Ciò nonostante, bisogna tenere conto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 119/2011 all’art. 16 del T.U sulla maternità, per cui, adesso, in caso di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione, nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno facoltà di riprendere in qualunque momento l’attività lavorativa (con un preavviso di dieci giorni al datore di lavoro ed a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla loro salute).
Ora, la vicenda di cui quest’oggi si tratta prende origine origine dal contenzioso instaurato tra una lavoratrice e la società che l’aveva licenziata.
La corte d’appello adita territorialmente competente, rigettava il gravame (incidentale) proposto dalla società datrice di lavoro della donna, avverso la pronuncia di prime cure, la quale a sua volta, aveva dichiarato la nullità del licenziamento e per l’effetto, in parziale accoglimento del gravame (principale) proposto dalla lavoratrice, condannava la società al pagamento della retribuzione maturata dalla data in cui la datrice di lavoro aveva ricevuto il certificato medico attestante lo stato di gravidanza, anziché, come statuito dal primo Giudice, dalla data dell’offerta della prestazione lavorativa.
A sostegno della predetta decisione, la Corte d’appello sosteneva che: a) il recesso era nullo, in quanto intimato nel corso del periodo dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino; b) non poteva esser richiamato nella fattispecie il disposto dell’art. 19 D. Lgs. n. 151/01, che equipara la gravidanza di durata inferiore ai sei mesi alla malattia, costituendo tale disposizione tutela della lavoratrice e non fonte di deroghe alla previsione di nullità del licenziamento; c) trattandosi di nullità per contrasto di norme imperative e quindi di un vizio genetico dell’atto, non sanabile e improduttivo di effetti, il licenziamento intimato nel periodo di gravidanza non ha effetti risolutori del rapporto, che quindi permane; d) infine, per quanto di interesse, le retribuzioni competevano dalla data in cui !a datrice di lavoro aveva ricevuto il certificato medico di gravidanza.
Proponeva così ricorso per Cassazione la società – odierna ricorrente, sostenendo, in particolare, con il primo motivo di gravame la violazione di plurime disposizioni di diritto, nonché il vizio di motivazione, posto che in base alla normariva legislativa e regolamentare in materia, non è prevista per il caso de qua, (ossia l’interruzione della gravidanza entro il 180° giorno) la nullità del licenzimento, posto che il regolamento di cui al d.p.r. n. 1026/76 nulla dispone al riguardo in caso di aborto; diversamente opinando, si giungerebbe – sempre a detta della difesa – a portare ad una disparità di trattamento non accettabile, per cui la lavoratrice che abbia partorito un bambino deceduto e quella il cui figlio sia morto prima del compimento del primo anno di età godrebbero di una tutela di minor durata rispetto a quella riconosciuta alla lavoratrice che abbia abortito.
Non soltanto, con il secondo motivo di impugnazione, la ricorrente censurava per vizio di motivazione le ragioni che avevano indotto la Corte territoriale sopra citata a ritenere manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale sollevata, con riferimento all’art. 54 d.lvo n. 151/01, per la sua ritenuta contrarietà:
– Agli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione perché in tal modo: a) il datore di lavoro si troverebbe, al termine del periodo di tutela assicurato dalla norma in esame, nella condizione di non poter esercitare il proprio diritto di recesso,sebbene lo stesso sia assicurato dall’art. 2110 c.c. ; b) per irragionevolezza e illogicità, potendo godere la lavoratrice che abbi abortito di una tutela maggiore di quelle conosciute alla lavoratrice il cui figlio sia nato morto o deceduto durante il periodo di interdizione dal lavoro;
– Con riferimento al solo art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede l’esclusione del licenziamento per il caso di recesso a seguito del superamento del periodo di comporto, costituendo tale superamento condizione risolutiva del rapporto.
Ebbene, alla luce delle predette censure la Suprema Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – pronunciava sentenza di rigetto del ricorso così proposto per le motivazioni che seguono.
«La previsione di cui all’art. 19 d.lvo n. 151/01, nel considerare a tutti gli effetti come malattia l’interruzione spontanea o volontaria della gravidanza è disposizione di tutela della lavoratrice, che non elide tuttavia il disposto dell’art. 54 D.L.vo n. 151/01 nella parte in cui impone il divieto di licenziamento durante la pregressa gravidanza e sanziona di nullità il licenziamento intimato in violazione di tale divieto; la previsione del divieto di licenziamento, nell’ipotesi di interruzione della gravidanza entro il 180° giorno dal suo inizio, va tuttavia interpretata nei limiti in cui può avere un senso, dovendosi quindi escludere la perdurante efficacia del divieto stesso “fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III,nonché fino al compimento di un anno di età del bambino, trattandosi di cadenze temporali che necessariamente, nella suddetta ipotesi, non possono verificarsi.
Ne discende che non è condivisibile l’opzione ermeneutica propugnata dalla ricorrente, secondo cui in caso di interruzione della gravidanza entro il 180° giorno non potrebbe ritenersi la nullità del licenziamento intimato mentre la gravidanza era ancora in corso, ma neppure la diversa (e contestata) opzione secondo cui, anche in caso di aborto, lì art. 54 D.L.vo n. 151/01 sarebbe applicabile nella sua integrale disposizione letterale, ossia con la previsione (assurda e anche per ciò da escludersi) di un divieto di licenziamento che si estenderebbe fino ad un termine finale irrealizzabile).
In altri termini, mentre per gli altri descritti esiti patologici il legislatore ha ritenuto di dettare apposite norme parzialmente modificatrici della disciplina dell’art. 54 cit, per il caso di interruzione della gravidanza entro il 180° giorno dal suo inizio ciò non ha fatto, reputando implicitamente che il divieto di licenziamento per il periodo di gravidanza (e dunque solo finché la gravidanza stessa non si sia interrotta) costituisse sufficiente tutela della lavoratrice, in una con la previsione già ricordata, di considerare come malattia la stessa interruzione della gravidanza».
Secondo l’interpretazione della Corte, in relazione ai limiti di applicabilità dell’art. 54 nel caso di interruzione della gravidanza prima del 180° giorno, si deve ritenere infondato il ricorso così proposto.
«Infatti – aggiungono gli ermellini – i ristretti limiti temporali in cui può trovare applicazione il divieto di licenziamento (al massimo 180 giorni, nel caso davvero limite di licenziamento intimato il primo giorno di gravidanza e di interruzione della stessa al 180° giorno), escludono che la parte datoriale venga a trovarsi nella situazione di non poter più invocare, per essere venuti meno i presupposti per i decorso del tempo, il periodo di comporto contrattualmente pattuito, con conseguente violazione della facoltà attribuita all’autonomia negoziale dall’art. 2110 c.c. Al contempo, essendo privo di positivo riscontro l’assunto secondo cui la lavoratrice che abbia subito l’interruzione della gravidanza entro il 180° giorno verrebbe attribuita una tutela maggiore di quella riconosciuta alla lavoratrice il cui figlio sia nato morto o sia deceduto durante il periodo di interdizione dal lavoro, ne sono con ciò stesso». Nei suddetti termini concludeva la Suprema Corte, rigettando così il ricorso de quo.

Avv. Sabrina Caporale

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