La responsabilità penale dello psichiatra – psicoterapeuta è una species rientrante nella più ampia categoria della responsabilità medica, dalla quale se ne differenzia per importanti peculiarità 

«L’attività medica consiste nella formulazione di diagnosi, nell’indicazione di prognosi, in relazione a malattie o disfunzioni del corpo o della mente, in atto o prevedibili, nonché nella prescrizione di terapie e pratiche di prevenzione, con eventuale prescrizione di farmaci, nella manipolazione del corpo umano, sempre a scopo curativo o preventivo, nella prescrizione ed applicazione di protesi o nell’utilizzazione di qualsiasi altro diverso strumento curativo o preventivo idoneo ad attivare o ad arrestare processi evolutivi o involutivi fisici o psichici … » (Cass. 5.4.1996).

La responsabilità penale dello psichiatra – psicoterapeuta, può certamente considerarsi una species rientrante nella più ampia categoria della responsabilità medica, dalla quale se ne differenzia per importanti pecularità.

Si è da sempre sostenuto che il ruolo dello psichiatra è quello di “realizzare tutti gli interventi terapeutici di volta in volta necessari o utili in vista del miglioramento delle condizioni psichiche del paziente, come pure dell’eventuale impedimento di eventi capaci di arrecargli pregiudizio” (FIANDACA).

Dal che ci si è ripetutamente interrogati se questi, oltre ad essere garante della salute (mentale) del paziente, non sia anche (e, in tal caso fino a che punto) garante della sua incolumità fisica e della sua vita, nonché di quella di eventuali terzi che possono essere offesi dalla sua condotta.

Entra così in gioco l’elevata difficoltà nel definire quali siano le regole cautelari che informano questa professione: se esse cioè, devono riferirsi soltanto “alla fase della verifica e della «valutazione», ma anche a quella, più strettamente «modale» e operativa, della scelta del percorso terapeutico”. (DE FRANCESCO).

Si tratta di argomenti che nell’ambito della scienza psichiatrica si aggravano ulteriormente se si pensa in particolar modo alla estrema difficoltà di individuare il confine tra diagnosi corretta e diagnosi errata, trattamento indovinato e trattamento sbagliato; o ancora nella problematicità di circoscrivere l’area dei mezzi terapeutici di cui può disporre realmente lo psichiatra nei confronti del paziente, al limite tra la necessità di curare e proteggere la sua salute e tutelarne al contempo la sua libertà, dignità e autonomia.

Non bisogna infatti trascurare il profilo, sempre più rilevante della tutela della salute, dignità e libertà di autodeterminazione del paziente. Se, infatti, da una parte vi sono le regole cautelari che dettano al professionista il percorso cui egli dovrà attenersi, nel perseguimento del migliore e più efficace risultato, dall’altra vi è la volontà del paziente che a sua volta influenzerà, direttamente, il margine di rischio del medico, talvolta, escludendolo nel giudizio di rimproverabilità, per non aver adottato la terapia migliore; e indirettamente anche sulla scelta della regola cautelare, collegata alla terapia accettata, quale migliore viatico per conseguire quell’obiettivo terapeutico che emerge dall’alleanza medico-paziente (CUPELLI).

Ebbene anche per gli operatori del diritto non è facile definire situazioni come quella del caso in esame, ove imputata era psicoterapeuta, già condannata dai giudici di merito, per non aver correttamente fatto applicazione delle regole cautelari di diligenza, prudenza e perizia nello svolgimento della sua attività professionale.

Contro quest’ultima, era stata elevata l’imputazione di lesioni colpose gravissime in danno di un minore, rappresentate da forme di disturbo mentale “con alterazioni a livello funzionale e comportamentale”. Secondo l’accusa, la professionista avrebbe assecondato ed avallato le finalità perseguite dalla madre del minore, di allontanamento della figura paterna dalla vita del bambino,dando per scontato che il minore avesse subito un abuso sessuale ad opera del padre, sebbene altre ipotesi, poste a fondamento del malessere del bambino, emergessero chiaramente dal contesto nel quale lo stesso era vissuto;e più in generale, di aver praticato una terapia errata e inadeguata sia sotto il profilo tecnico-psicologico, sia sotto quello deontologico-professionale.

Tali argomenti, insieme alle testimonianze dei numerosi specialisti che si erano occupati a vario titolo del caso (assistenti sociali e periti nominati in diversi giudizi), avevano convinto i giudici della Corte territoriale, ritenendo provato che: la psicoterapeuta era incorsa in errori metodologici gravi, consistiti nel praticare sul minore una terapia inadeguata e dannosa; aveva agito sul piccolo paziente alimentando il conflitto con il padre; non si era attivata per curare la tendenza marcata del bambino a confondere il piano della realtà con quello della immaginazione e ad abbandonarsi a fantasie distruttive.

Tale giudizio, sebbene astrattamente corretto, sotto il profilo concettuale era – a parere dei giudici della Suprema Corte di Cassazione – monco sotto l’aspetto argomentativo.

I giudici di merito non avevano fornito una compiuta risposta in ordine alla precisa diagnosi della malattia sofferta dal minore ed alla sua durata. «Pure avendo ricostruito in modo dettagliato lo sviluppo della vicenda ed individuato i diversi errori nei quali era incorsa la imputata durante la terapia praticata, non hanno precisato: il grado di incidenza di tali errori sulla già conclamata patologia sofferta dal piccolo paziente; la precisa diagnosi della malattia insorta nel minore in seguito all’intervento della psicoterapeuta; la prevedibile durata della malattia stessa, in relazione alla contestazione elevata a carico della ricorrente, a cui è stato addebitato di avere causato nel minore una lesione gravissima».

Ebbene, «secondo il costante orientamento della Corte , -aggiungono gli Ermellini – in tema di lesioni personali, costituisce “malattia” qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, destinata a perdurare fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione. Essa può riguardare sia la sfera fisica della persona, sia quella psichica. Il concetto di lesione coinvolgente la sfera psichica della persona, ha trovato luogo nella giurisprudenza di legittimità con riferimento all’art. 582 c.p. , dove è espressamente richiamato il concetto di malattia “nella mente”. Si afferma, secondo la definizione tradizionalmente fornita dalla giurisprudenza della Corte di legittimità che la malattia nella mente è quella che comporta non soltanto offuscamento o disordine, ma anche indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica, con effetto permanente o temporaneo. La nozione di lesione gravissima si ricava dall’art. 583 c.p., dove, in termini definitori, detta lesione è collegata alla insorgenza di una malattia certamente o probabilmente insanabile. Pertanto, la malattia da ritenersi insanabile è quella che ha attitudine a non essere reversibile ed a permanere per tutta la vita con una possibilità di guarigione molto remota o nulla».

Dalla motivazione della sentenza impugnata, tuttavia, non emergeva chiaramente la definizione della patologia di cui era affetto il minore in seguito alla terapia praticata, né tanto meno la sua durata.

La Cassazione perciò, pur riconoscendo l’esistenza di evidenti errori nella terapia praticata dalla ricorrente, rinviava al giudice civile per il compimento delle indagini e degli approfondimenti sopra indicati, riguardanti la precisa patologia da cui era risultato affetto il minore dopo l’intervento terapeutico e la sua durata.

Avv. Sabrina Caporale

 

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