E’ stata respinta l’istanza di un dipendente dell’Università di Cassino volto alla reintegrazione nella sua originaria mansione, nonché al risarcimento di tutti i danni patiti in conseguenza del presunto demansionamento

La vicenda

L’Università degli Studi di Cassino era stata citata a giudizio da un proprio dipendente, il quale aveva dedotto di essere stato assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della categoria EP2 di inquadramento ed aveva domandato la reintegrazione in funzioni confacenti alla qualifica posseduta, nonché il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.

In primo grado l’istanza era stata accolta; diverso l’esito in appello. La Corte territoriale, riassunti i termini della vicenda e le rispettive deduzioni delle parti, aveva ritenuto non condivisibili le conclusioni alle quali il Tribunale era pervenuto, evidenziando che: a) l’assegnazione ad un incarico meno impegnativo rispetto a quelli ricoperti in passato, era stata sollecitata dallo stesso ricorrente, il quale aveva fatto leva su esigenze di carattere familiare e sulla necessità di assistere madre e figlia, entrambe affette da handicap;

b) la sola circostanza che al settore patrimonio, cui era stato destinato, fossero assegnate unità di personale in numero inferiore a quello del settore affari generali da cui proveniva, non poteva integrare di per sé dequalificazione, tanto più che era stato lo stesso ricorrente a sollecitare mansioni qualitativamente e quantitativamente meno gravose.

La nozione di equivalenza delle mansioni nel pubblico impiego

Sulla vicenda si è infine, pronunciata la Sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n. 16311/2018) che ha ricordato il consolidato insegnamento giurisprudenziale, secondo cui “per il rapporto di pubblico impiego contrattualizzato la disciplina delle mansioni è dettata, non dall’art. 2103 c.c., bensì dalla norma speciale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (Cass. S.U. n. 8074/2008) che, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis antecedente alla riformulazione operata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità acquisita e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. nn. 976 e 450 del 2019; Cass. nn. 32592, 32151, 18817, 7304, 5696 del 2018).

Al riguardo, è stato anche precisato che tale nozione di equivalenza in senso formale comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria sono esigibili dal datore di lavoro, sicché, a fronte di un’equivalenza sul piano contrattuale, una dequalificazione è ipotizzabile solo qualora la nuova assegnazione comporti un sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa.

Ebbene, nel caso in esame, la corte di merito, aveva fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra richiamati, essendo pervenuta al rigetto della domanda reintegratoria, da un lato escludendo che lo stesso ricorrente fosse stato relegato in una posizione di sostanziale inattività, dall’altro evidenziando che, al contrario, allo stesso erano stati assegnati compiti di responsabilità, affidabili, secondo il regolamento di Ateneo, solo a dipendenti inquadrati nella categoria EP.

La redazione giuridica

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