In tema di giudizio disciplinare a carico dell’ avvocato, le norme del nuovo codice si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della loro entrata in vigore, se più favorevoli all’incolpato, in virtù del principio (art. 65 co. 5 L. n. 247/2012) secondo cui il criterio del favor rei prevale su quello del tempus regit actum

Ad un avvocato erano stati contestati una serie di illeciti disciplinari, tra questi quello di essere venuto meno ai propri doveri deontologici con violazione degli artt. 6, 8, 38 e 40 previgente codice deontologico forense, avendo omesso di svolgere le attività difensive richieste, malgrado le rassicurazioni reiteratamente date alla cliente.

L’avvocato era stato incaricato di procedere giudizialmente per l’accertamento del rapporto di lavoro subordinato per conto della cliente nei confronti del proprio datore di lavoro; pur avendo richiesto compenso e aver fornito all’assistita false informazioni sullo svolgimento del mandato, egli non si era mai attivato per il deposito del ricorso; ed invero, l’assistita dopo aver svolto alcune verifiche presso il Tribunale, si era resa conto che nessun ricorso era mai stato effettuato; aveva perciò presentato esposto al COA che all’esito del procedimento dichiarava la responsabilità dell’avvocato per tali addebiti e gli irrogava la sanzione della censura.

La pronuncia del Consiglio Nazionale Forense

Il Consiglio Nazionale Forense, investito dell’impugnazione proposta dal legale, confermava la decisione dell’ordine professionale rilevando come ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare, fosse irrilevante la sussistenza da parte del professionista di una causa di giustificazione o non punibilità…”essendo sufficiente a configurare la violazione l’elemento della suitas della condotta, inteso come volontà consapevole dell’atto che si compie, dovendo la coscienza e la volontà essere interpretate in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi, di dominarlo”.

La vicenda è giunta così in Cassazione. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite “in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, avendo della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 65, comma 5, recepito il criterio del favor rei, in luogo del criterio del tempus regit actum” (cfr. Cass. Sez. U. n. 3023 del 16/02/2015; n. 18394 del 20/09/2016; n. 27200 del 16.11.2017).

Le contestazioni disciplinari

Nel caso in esame, all’avvocato era stata contestata la violazione dell’art. 6, comma 1, artt. 8, 38 (inadempimento al mandato) e art. 40 (dovere di informazione) del codice deontologico previgente (R.D.L. n. 1578 del 1933).

Il C.N.F., nella sentenza impugnata, aveva evidenziato che tali ultimi illeciti sono stati riprodotti nell’art. 26, comma 3 e art. 27, comma 6, nuovo codice deontologico, che prevedono autonomi apparati sanzionatori e che, al contempo, gli art. 6 e 7 C.D.F. sono stati riprodotti rispettivamente negli artt. 9 e 12 nuovo C.D.F. che non prevedono autonomi apparati sanzionatori ma, al contempo, aveva rilevato che, “qualora non si volesse considerare esemplificativo il comportamento posto in essere dal ricorrente per violazione degli artt. 6 e 8 vecchio CDF, ma anche solo suscettibile di ledere i principi generali espressi dal codice deontologico quali, probità, diligenza, lealtà e correttezza, si sarebbe potuta, comunque, invocare la violazione dei principi di cui agli artt. 9 e 12 nuovo CDF”.

La Corte di Cassazione (Sezioni Unite, sentenza n. 8242/2020) ha confermato siffatta interpretazione.

Invero, le argomentazioni svolte dal Consiglio Nazionale forense, fatte oggetto di censura, ovvero la riconducibilità delle condotte poste in essere dall’incolpato alle violazioni dei principi di cui agli art. 9 e 12 nuovo codice deontologico erano state svolte, come evincibile dal tenore della sentenza impugnata, solo in via ipotetica e subordinata alla vera ratio decidendi posta a base della decisione, ovvero la riproposizione delle disposizioni contestate e accertate come violate, negli artt. 26 e 27 nuovo codice deontologico, invocati dallo stesso ricorrente.

Ora, tali disposizioni prevedono espressamente per la violazione dei doveri, ivi sanciti, la sanzione della censura (poi effettivamente irrogata), con la conseguenza che nessun favor rei è riscontrabile rispetto alle pregresse disposizioni. L’art. 22, invocato dal ricorrente, prevede sì al comma 3, lett. a), che, “nei casi meno gravi, la sanzione disciplinare può essere diminuita all’avvertimento, nel caso sia prevista la sanzione della censura” ma il Consiglio Nazionale Forense, sul punto, aveva espressamente pronunciato ritenendo, al contrario, che “la condotta omissiva posta in essere dal ricorrente in violazione di norme deontologiche, che si era rivelata di particolare gravità, per essersi protratta per un consistente lasso di tempo… non avrebbe potuto indurre a sanzionare il fatto con una sanzione di specie diversa più lieve…di quella comminata dal COA territoriale…”.

L’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare dell’avvocato

Il Supremo Collegio ha ritenuto conforme alla giurisprudenza di legittimità anche la valutazione svolta dal C.N.F. in ordine all’elemento soggettivo dell’illecito, specie nella parte in cui aveva ritenuto irrilevante l’elemento del dolo ai fini della sanzionabilità della condotta, posto che la sanzione presuppone che la condotta posta in essere dall’incolpato sia connotata quanto meno dall’elemento soggettivo della colpa.

Tale argomentazione è in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 13456 del 29/05/2017, secondo cui “in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato, in base dell’art. 4 nuovo codice deontologico forense, la coscienza e volontà consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l’atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso, il quale deve dimostrare l’errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l’imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti”.

Per queste ragioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermato la decisione del C.N.F. a carico dell’avvocato.

Avv. Sabrina Caporale

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