In base alla clausola “success fee” il cliente si obbliga a corrispondere all’avvocato un compenso professionale (più elevato) o parte di esso, soltanto qualora sia raggiunto un certo risultato

Con la sentenza in commento, il Tribunale di Milano (n. 5548/2019) ha affermato che siffatta clausola (“success fee”) non costituisce patto di quota lite ed è, perciò, valida se prevede un compenso professionale proporzionato all’importanza e alla difficoltà della prestazione, nonché al valore della causa.

La vicenda

Come è noto le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale di avvocato sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo.

Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità, rileva non già il conseguimento o meno del risultato utile per il cliente, ma le modalità concrete con le quali il professionista avvocato ha svolto la propria attività, avuto riguardo, da un lato, al dovere primario di tutelare le ragioni del cliente e, dall’altro, il rispetto del parametro di diligenza a cui questi è tenuto (Cass. n. 18612/13; n. 8863/11; n. 6967/06).

In generale, – ha affermato la giurisprudenza – l’avvocato è tenuto ad espletare il proprio mandato in conformità al parametro di diligenza dall’art. 1176 comma 2 c.c., che è quello del professionista di media attenzione e preparazione, qualificato dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta, salva l’applicazione dell’art. 2236 c.c. nel caso di prestazioni implicanti la risoluzione di problematiche tecniche di particolare difficoltà.

La responsabilità professionale dell’avvocato

La Suprema Corte ha altresì precisato che: “la responsabilità professionale dell’avvocato deriva dall’obbligo di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, ai quali sono tenuti; a rappresentare tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; a chiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole” (Cass. n. 24544/2009). Più in particolare, “l’avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del cliente in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon esito del giudizio, mentre nei casi di interpretazioni di leggi o di risoluzione di questione opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave (Cass. Civ. n. 16846/2005).

Come generalmente ammettono dottrina e giurisprudenza, il professionista può liberarsi dalla imputazione di ogni responsabilità se ed in quanto dimostri l’impossibilità della perfetta esecuzione della prestazione (ex art. 1218 c.c.), o di aver agito con diligenza.

Quanto al riparto dell’onere probatorio il cliente che sostiene di aver subito un danno, per l’inesatto adempimento del mandato professionale del suo avvocato, ha l’onere di provare:

  1. L’avvenuto conferimento del mandato difensivo;
  2. La difettosa o inadeguata prestazione professionale;
  3. L’esistenza del danno;
  4. Il nesso di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale e il danno (Cass. Civ. n. 9238/07).

Ebbene, nel caso in esame, il ricorrente aveva proposto opposizione al decreto ingiuntivo intimatogli da uno studio legale e da un suo associato, per il mancato pagamento delle prestazioni professionali rese in sua difesa in una complessa ed annosa vicenda che lo aveva visto contrapposto ad una s.r.l., per un credito nascente da un riconoscimento di debito del 1975 pari a 78.400.000 di lire.

In particolare, l’opponente aveva dedotto la responsabilità del difensore per non avere adeguatamente eccepito, nel controricorso in Cassazione, il giudicato che copriva dedotto e deducibile in relazione al credito nei confronti della società, per la mancata impugnazione del capo della sentenza della corte d’appello che statuiva la compensazione delle spese e per non aver segnalato la possibilità di azionare la tutela risarcitoria contro lo Stato ai sensi della L. 117/88.

Quanto al primo profilo, il ricorrente aveva provato il conferimento del mandato al professionista. Tanto premesso, il Tribunale di Milano ha rigettato l’opposizione perché infondata.

Nessuna responsabilità – ad avviso del giudice meneghino – era addebitabile al professionista, il quale aveva correttamente svolto l’incarico professionale. Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che “ove anche risulti provato l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione, per negligente svolgimento della prestazione, il danno derivante da eventuali sia omissioni deve ritenersi sussistente solo qualora, sulla scorta di criteri probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito (Cass. n. 22026/04; n. 10966/04; n. 9917/2010).  

Ad ogni modo, l’opponente aveva altresì “denunciato” la clausola “success fee” proposta dall’avvocato al momento del conferimento dell’incarico e da questi pacificamente accettata, per il tramite della moglie.

Ad avviso del cliente tale clausola costituiva patto di quota lite, come tale vietato ai sensi dell’art. 1261 c.c. e quindi, nullo ex art. 1218 c.c.

In proposito la Corte di Cassazione ha evidenziato che (anche prima dell’entrata in vigore della L. n. 246/06) “in tema di compensi professionali, non sussiste il patto di quota lite, vietato dal terzo comma dell’art. 2233 c.c., non solo nel caso di convenzione che preveda il pagamento al difensore sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro (anche se in percentuale all’importo, riconosciuto in giudizio alla parte) non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale, ma anche quando la pattuizione del compenso al professionista, ancorché limitato agli acconti versati, sia sostanzialmente, seppur implicitamente, collegata all’importanza delle prestazioni professionali od al valore della controversia e non in modo totale o prevalente all’esito della lite” (Cass. n. 6519/12). Deve comunque trattarsi di compenso aggiuntivo, non sostitutivo, qualificabile come “palmario”, cioè di premio pattuito in aggiunta al compenso tariffario.

Peraltro, successivamente le Sezioni Unite si sono espresse nel senso che anche “l’aleatorietà del patto di quota lite non ne impedisce la valutazione di equità ai fini disciplinari, in quanto l’art. 45 del codice deontologico forense, nel testo deliberato il 18 gennaio 2007, vieta l’accordo quotalizio che prevede un compenso sproporzionato per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto dei fattori rilevanti, quali il valore e la complessità della lite e la natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio”.

La decisione

Ebbene, nel caso in esame, il Tribunale di Milano ha ritenuto che la pretesa azionata dallo studio e dal suo associato non fosse sproporzionata, tenuto conto del valore della controversia, del risultato comunque raggiunto, della quantità e dell’importanza delle prestazioni richieste riguardanti molteplici controversie di diversa natura e oggetto; per queste ragioni il decreto opposto è stato confermato.

Avv. Sabrina Caporale

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