Il paziente collega la lesione al nervo femorale e al tendine rotuleo alla negligente esecuzione dell’intervento di artroscopia svoltosi il 31/10/2002 presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli. Da questa ne è derivata una patologia depressiva e un vero e proprio danno biologico.
La vicenda giudiziaria
Il Tribunale di Bologna accoglie la domanda del paziente e condanna le parti convenute per oltre seicento mila euro. Successivamente, la Corte d’appello di Bologna, con sentenza resa pubblica il 26 maggio 2020, accoglieva parzialmente l’impugnazione principale dell’Istituto Ortopedico, riconoscendo solo la responsabilità del medico anestesista e rideterminando drasticamente gli importi risarcitori.
Nello specifico i giudici accertavano la responsabilità del solo medico anestesista per la “lesione del nervo femorale parziale” in ragione della imperita manovra anestesiologica che causava “paresi, ipotrofia e non funzionamento del muscolo quadricipite”, con “una riduzione della mobilità dell’arto, con il 40% circa delle fibre motorie comunque ora attive”. Inoltre escludevano la responsabilità del chirurgo per la “tendinosi” per la “introduzione del trocar, troppo mediale, invece che antero-laterale”, avendo i CTU rilevato “la indimostrabilità più che probabilistica circa l’effettivo inserimento dello strumento causativo di danno, anche sulla base della evoluzione della vicenda clinica, dei dati strumentali e dei dati clinici”.
Poi rideterminavano la somma dovuta a titolo di danno non patrimoniale, quantificata nell’importo complessivo di 95.490 euro, sulla base della percentuale di invalidità pari al 18% (in adesione della seconda CTU istruita nel giudizio di primo grado) e non anche di quella maggiore ritenuta dal giudice di primo grado sulla scorta della percentuale del 60% di invalidità civile riconosciuta all’attrice in sede amministrativa.
Il risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica
Riguardo, invece, all’appello incidentale della paziente, la Corte di Bologna rigettava la censura sul mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, in quanto “sfornita di prova”, non integrata da una consulenza di parte e dalla “valutazione della Commissione per l’handicap”. Rigettava, inoltre, la pretesa risarcitoria, avanzata in sede di precisazione delle conclusioni nel grado di appello, per asserito aggravamento del danno biologico per discopatia insorta come “effetto degenerativo causato dalla menomata deambulazione.
Per quanto qui di interesse, la paziente adisce la Corte di Cassazione lamentando – oltre alla quantificazione del danno biologico e temporaneo – l’omesso esame dell’ulteriore danno patito a seguito dell’intervento e concernente la lesione del tendine rotuleo destro. La donna sostiene che il Giudice di appello, dopo aver escluso la riconducibilità causale della tendinosi all’errore del chirurgo, avrebbe dovuto ricondurre eziologicamente la medesima patologia nell’alveo delle conseguenze pregiudizievoli discendenti dalla lesione del nervo femorale, come ritenuto dal CTU, e, dunque, imputarla al soggetto che, di tale ultima lesione, si è reso responsabile, cioè il medico anestesista; la responsabilità di quest’ultimo, invece, è stata erroneamente riconosciuta per i soli danni derivanti dalla lesione nervosa. Lamenta, inoltre l’errore della Corte d’appello che avrebbe accomunato l’accertato danno psichico alla “personalizzazione”.
Solo quest’ultima doglianza è fondata (Cassazione civile sez. III, 22/04/2024, n.10787).
La sofferenza specifica che degenera in patologia
Quando la sofferenza soggettiva arrecata da un determinato evento della vita, non contenendosi sul piano di un’abituale, normale o comprensibile, alterazione dell’equilibrio affettivo-emotivo del danneggiato, degenera al punto tale da assumere una configurazione medico-legale accertabile alla stregua di una vera e propria lesione della propria integrità psicologica, non più di un danno morale avrà a discorrersi, bensì di un vero e proprio danno biologico, medicalmente accertabile come conseguenza di una lesione psicologica idonea ad esplicare un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato.
Pacifico ciò, e la Cassazione richiama due propri precedenti (n. 6443/2023; n. 18056/2019), il Giudice di appello ha riconosciuto che le conseguenze derivate all’attrice dal decorso post-operatorio si sono tradotte in un “disturbo di adattamento con umore depresso di tipo cronico”, ossia in una situazione che ha trasceso il piano della sofferenza soggettiva, tale da mutare in una condizione psicologica di tipo patologico. Tuttavia ha errato nel ricondurre lo “stato psicopatologico depressivo” tra i presupposti della “personalizzazione del danno” non patrimoniale e “in una misura proporzionata al profilo psico esistenziale, di una persona che all’epoca svolgeva un’attività lavorativa di impiegata con una ordinaria sfera di vita personale, indubbiamente penalizzata”, giacché avrebbe dovuto, ai fini della liquidazione complessiva del danno biologico, prendere in considerazione il danno psichico allegato e provato dalla vittima.
Il corretto criterio medico-legale per il risarcimento danni
In tal senso, non potrà essere effettuata una mera sommatoria algebrica delle percentuali di invalidità previste per il singolo organo o apparato, ma dovrà essere svolto un apprezzamento funzionale e complessivo delle singole invalidità, attraverso un corretto criterio medico-legale e in base ad un barème redatto con criteri di scientificità.
Ergo deve essere rideterminato complessivamente, dalla Corte di Appello in diversa composizione, il danno biologico in tutte le sue componenti (temporanea e permanente), in ragione della coesistenza della lesione del nervo femorale e della patologia depressiva.
Avv. Emanuela Foligno