La Cassazione ha confermato la natura ritorsiva del licenziamento intimato dal datore di lavoro ad un proprio dipendente, rientrato in servizio dopo una prolungata assenza per malattia
La vicenda
La Corte d’appello di Firenze, in accoglimento del reclamo proposto dal lavoratore, aveva dichiarato la nullità del licenziamento perché intimato per ritorsione e, in applicazione, del primo comma dell’art. 18 stat. Lav., aveva condannato la società reclamata a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno, in misura pari alle retribuzioni, dal giorno del recesso sino all’effettiva reintegrazione.
Il lavoratore, assunto alle dipendenze della società reclamata come operaio specializzato con mansioni di incisore pantografista, aveva ricevuto, al momento del suo rientro in servizio dopo una lunga assenza per malattia (dal 18 giugno 2015 al 29 gennaio 2016), una lettera di licenziamento motivata dalla scelta organizzativa di chiudere il settore produttivo della bigiotteria, argenteria e ottone per il calo di commesse riguardante tale settore, con conseguente soppressione della sua posizione lavorativa e l’impossibilità di ricollocamento in altre mansioni uguali o equivalenti.
Per la Corte d’appello, la documentazione prodotta e la prova testimoniale evidenziavano che non vi era all’interno della organizzazione aziendale, un vero e proprio reparto di lavorazione dei materiali diversi dall’oro e neppure l’esclusiva adibizione del reclamante a tali lavorazioni. Non si era nemmeno in presenza di una ipotesi di ristrutturazione aziendale, ma di un’ipotesi di mera riduzione delle mansioni del reclamante relative alla cessazione di alcune lavorazioni; situazione peraltro, inseritasi nel contesto di un andamento positivo del complesso fatturato aziendale rispetto agli anni precedenti al recesso. E non era neppure stata giustificata, da parte del datore di lavoro, la scelta di licenziare il reclamante in luogo di altro collega meno anziano e con minori capacità e competenze.
La corte d’appello aveva perciò rilevato la sussistenza del motivo ritorsivo del licenziamento, espressivo della volontà di rappresaglia per la prolungata assenza per malattia del dipendente.
L’intento era stato dimostrato alla stregua di una valutazione complessiva delle vicenda, in applicazione delle comuni regole di esperienza.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice di lavoro, lamentando l’erronea ricostruzione operata dai giudici di merito in ordine alla natura ritorsiva del licenziamento.
Ma i giudici della Sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n. 13583/2019) hanno dichiarato il motivo infondato.
Quanto al carattere ritorsivo del licenziamento – e quindi alla domanda di accertamento della nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito – la Cassazione ha chiarito che “per accordare la tutela che l’ordinamento riconosce a fronte di tale violazione, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fattori rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816/2005), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555/2011).
L’onere della prova del carattere ritorsivo del provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro.
L’esclusività del motivo ritorsivo
A tal proposito, è stato anche chiarito che il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.
Detto in altri termini, l’esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale.
Nel caso in esame, la corte d’appello aveva fatto corretta applicazione dei principi di diritto, poiché aveva esaminato la domanda incentrata sulla natura ritorsiva del licenziamento dopo aver escluso la sussistenza in concreto, del giustificato motivo oggettivo addotto da parte datoriale a fondamento del recesso. Aveva, poi posto in relazione tra loro gli elementi indiziari acquisiti al giudizio, giungendo ad affermare che il licenziamento del reclamante, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, non presentava altra spiegazione se non il collegamento causale con l’assenza per malattia.
La Suprema Corte ha anche chiarito che “seppure il licenziamento illegittimo e il licenziamento ritorsivo sono fattispecie giuridicamente distinte, tuttavia, ben può il giudice di merito valorizzare, ai fini della valutazione della ritorsività, tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, ivi inclusi quelli già valutati per escludere il giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui questi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale, consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso.
Avv. Sabrina Caporale
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