“La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo”
È quanto ha affermato la Sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n. 21216/2019) in una recente sentenza pronunciata all’esito del giudizio instaurato da un lavoratore contro il provvedimento di licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice di lavoro.
Sia in primo grado che in appello i giudici di merito avevano ritenuto legittimo il provvedimento di recesso della società, essendo stata dimostrata la simulazione dello stato di malattia da parte del proprio dipendente.
Il ricorso per Cassazione
Contro la decisione della corte territoriale il ricorrente ha proposto ricorso per Cassazione denunciando, tra gli altri motivi, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. e dell’art. 38 del CCNL per le aziende cartotecniche del settore industriale, per avere la Corte ritenuto proporzionato il licenziamento, sebbene la condotta addebitata, consistendo in un’assenza ingiustificata per due giorni, fosse punita dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa.
Ma il ricorso è stato rigettato. La Sezione Lavoro della Cassazione ha affermato che “la simulazione dello stato di malattia è comportamento di natura fraudolenta, che per la irrimediabile lesione del vincolo fiduciario che le è propria, integra un’ipotesi di giusta causa di recesso per il datore di lavoro”.
La decisione
È, d’altra parte, del tutto consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui “il giudice di merito può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato” (Cass. n. 4060/2011).
Per queste ragioni la Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La redazione giuridica
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