Made in Italy: l’etichetta col tricolore inganna sulla provenienza del bene

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L’utilizzo di etichette con la bandiera italiana (Made in Italy), su capi realizzati all’estero, integra il reato di cui all’art. 16 comma 4, d.l. n. 25 settembre 2009, poiché induce in errore il consumatore circa la provenienza del prodotto

La Corte d’appello di Ancona aveva confermato la condanna inflitta al legale rappresentante di una società produttrice di capi di abbigliamento, per aver utilizzato etichette (Made in Italy) idonee ad ingenerare nel consumatore la convinzione che il prodotto fosse interamente realizzato in Italia invece che in Bulgaria, come indicato nella documentazione doganale.

Contro tale pronuncia l’imputata aveva proposto ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all’accertamento della responsabilità. Ad avviso della difesa la condotta punibile ai sensi dell’art. 16 comma 4, d.l. n. 25 settembre 2009, n. 135, convertito dalla l. n. 166/2009, esige che l’indicazione del tipo “full made in Italy” o “100% made in Italy” o altre espressioni similari abbia ad oggetto merce non interamente disegnata, progettata, lavorata e confezionata nel nostro Paese, mentre non trova applicazione, qualora la stampigliatura faccia riferimento al semplice “made in Italy”, poiché in questo caso il fatto dovrebbe essere qualificato ai sensi dell’art. 4, comma 49, l. n. 350/200.

I motivi di ricorso

A tal proposito l’imputata aveva evidenziato che la tipologia di etichetta indicante un prodotto 100% italiano compariva solo in uno dei quattro stock di capi di abbigliamento elencati; mentre per gli altri non sussisteva il reato poiché gli abiti erano stati confezionati in Bulgaria, circostanza inidonea a radicare l’origine territoriale ai sensi dell’art. 38 Reg. CE.

Ed invero, i capi di abbigliamento recavano una doppia etichetta, una sulla manica, relativa al tessuto italiano e l’altra, all’interno, relativa alle ditte distributrici.

La collocazione del simbolo della bandiera italiana non poteva essere ritenuto un elemento sufficiente ad indurre in inganno il consumatore circa il paese d’origine del prodotto, a fronte di un’etichetta esplicita, non oscurata da altri simboli che richiamavano l’originalità italiana. E, in ogni caso, le etichette apposte, che riportavano la generica produzione in UE, erano veritiere.

In altre parole, la difesa censurava la motivazione della sentenza impugnata per aver ritenuto l’adozione di accorgimenti per far apparire i capi come interamente prodotti in Italia.

Tali argomenti non hanno convinto i giudici della Suprema Corte (Terza Sezione Penale, sentenza n. 10912/2020) che hanno rigettato il ricorso confermando, in via definitiva, la pronuncia di merito.

Ed invero, alla luce del materiale istruttoria la corte d’appello aveva correttamente qualificato la condotta contestata ai sensi dell’art. 16 comma 4, d.l. n. 25 settembre 2009, n. 135, convertito dalla l. n. 166/2009.

La norma recita espressamente: “Chiunque fa uso di un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale «100% made in Italy», «100% Italia», «tutto italiano», in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione, al di fuori dei presupposti previsti nei commi 1 e 2, e’ punito, ferme restando le diverse sanzioni applicabili sulla base della normativa vigente, con le pene previste dall’articolo 517 del codice penale, aumentate di un terzo”.

Il riferimento normativo

La diposizione si riferisce esclusivamente a quelle indicazioni di vendita che presentino il prodotto come interamente realizzato in Italia, ossia esplicitamente alle indicazioni del tipo “100% Made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano” o altre analoghe indicazioni idonee ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero anche alla apposizione di segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione di un prodotto realizzato interamente in Italia (Cass. n. 28220/2011).

Il precedente comma 3 stabilisce poi che “Ai fini dell’applicazione del comma 4, per uso dell’indicazione di vendita o del marchio si intende la utilizzazione a fini di comunicazione commerciale ovvero l’apposizione degli stessi sul prodotto o sulla confezione di vendita o sulla merce dalla presentazione in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e fino alla vendita al dettaglio”.

La decisione

Nel caso di specie, oltre all’indicazione del tessuto, anche le ulteriori etichette riconducibili a ditte italiane, i colori della bandiera italiana e le grucce contribuivano ad ingenerare la convinzione nel consumatore che il prodotto fosse interamente italiano.

La Corte ha, inoltre, ritenuto infondata la doglianza mossa dalla ricorrente relativa alla complessità della materia sotto il profilo normativo, dal momento che ella era una operatrice professionale del settore e come tale tenuta ad un costante aggiornamento anche sui profili normativi.

La redazione giuridica

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