Rischia una condanna penale il figlio che non versa alla madre disabile i mezzi necessari per la sua sussistenza anche laddove quest’ultima percepisca la pensione e l’indennità di accompagnamento

L’omessa assistenza alla madre disabile

Il Tribunale di Arezzo aveva dichiarato i figli di una donna gravemente ammalata, colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 570 comma 2 c.p. perché in concorso tra di loro avevano reiteratamente omesso di versarle il denaro necessario per la sua sussistenza. Con la stessa sentenza il giudice del capoluogo toscano aveva condannato i tre imputati anche al risarcimento in solido, dei danni al convivente more uxorio della defunta madre disabile, che si era costituito parte civile.

La Corte d’appello di Firenze, in riforma parziale della sentenza di primo grado, riduceva la pena inflitta agli imputati (ritenendo il periodo di commissione del reato inferiore a quello contestato), sospendendone l’esecuzione alla condizione del pagamento integrale della provvisionale entro 30 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza.

Contro tale decisione la difesa congiunta dei tre imputati aveva proposto ricorso per Cassazione denunciando il vizio di motivazione in ordine all’elemento materiale del reato, per avere la corte di merito trascurato che la (defunta) persona offesa fruiva di circa 1.300 euro mensili (pensione, indennità di accompagnamento contributo regionale per non autosufficienza) per 13 mensilità l’anno e viveva in una casa di sua proprietà con il convivente (anch’egli pensionato), per cui non sussisteva alcuno stato di bisogno, dovendo ella far fronte soltanto alle spese necessarie per il vivere quotidiano, poiché le spese per la badante erano coperte dai suoi figli.

Il ricorso per Cassazione

A detta dei ricorrenti mancava inoltre, l’elemento soggettivo del reato, avendo questi ultimi confidato nell’assistenza economica del convivente more uxorio della loro madre disabile, che per dovere di solidarietà (in quanto i due erano conviventi da più di trent’anni) avrebbe dovuto contribuire alle spese della famiglia di fatto.

Ma la Corte di Cassazione (Sesta Sezione Civile, sentenza n. 12201/2020) ha rigettato il ricorso perché infondato. Ad avviso degli Ermellini, la sentenza impugnata aveva correttamente escluso un obbligo di assistenza del convivente more uxorio riconducibile a quelli previsti dall’art. 570 c.p.; poiché il caso non rientrava nelle “unioni civili” disciplinate dalla legge 27 maggio 2016 n. 76.

Il rapporto di convivenza

In capo a quest’ultimo non vi era alcun obbligo giuridico di assistenza riconducibile alla previsione di cui all’art. 570 c.p., né la sua convivente era titolare di un correlativo diritto, permanendo pieno, per contro, il dovere dei figli di non far mancare alla madre i mezzi di sussistenza, ai sensi degli artt. 110 e 570, comma 2 c.p., come contestato nel capo di imputazione.

Invero la Corte d’appello, rimarcando che la donna aveva rinunciato alla eredità del marito per farne beneficiare ai figli, aveva evidenziato i suoi gravi problemi di salute (insufficienza renale cronica, demenza ingravescente), che la rendevano non autosufficiente. Inoltre, aveva rilevato come gli imputati avessero contribuito alle spese per le badanti sino al marzo del 2011, ma che poi da allora sino alla data della morte, della madre si erano resi inadempienti, senza addurre alcuna giustificazione.

Peraltro, il Supremo Collegio ha ribadito che lo stato di bisogno del beneficiario non è escluso dall’intervento di terzi (neanche se coobbligati o obbligati in via subordinata), per cui il reato si configura anche se qualcuno si sostituisce all’inerzia del soggetto tenuto a somministrare i mezzi di sussistenza (Cass. n. 16060/2014; Cass. n. 40823/2012; Cass. n. 5954/1985). Tanto è bastato a far ritenere l’inconsistenza della prospettazione difensiva.

La Suprema Corte non ha invece, ritenuto sussistente il diritto del convivente more uxorio della madre al risarcimento del danno.

Come è noto “le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che sono espressione di vincoli di affettività di fatti esistenti e si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale ma senza assumere la cogenza giuridica di cui all’art. 43, comma 2, c.c.”.

In questi casi, dal rapporto fattuale non sorge un’obbligazione civile ma un’obbligazione ex art. 2034 c.c., per cui soltanto dopo che si è verificato lo spontaneo adempimento della obbligazione naturale, la prestazione assume rilevanza giuridica e non può essere ripetuta perché si è prodotta la soluti retentio.

Ne consegue che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente more uxorio effettuate nel corso del rapporto configurano l’adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c.

Tuttavia, tale obbligazione naturale vale solo nei confronti della persona convivente e non anche dei suoi figli, per cui non ha fondamento una pretesa di risarcimento nei loro confronti. Una siffatta pretesa potrebbe valere solo se ricorrono nei confronti della convivente gli specifici presupposti dell’arricchimento senza giusta causa in presenza di prestazioni a suo vantaggio esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza (Cass. n. 11330/2009).

Pertanto, limitatamente a questo punto, la sentenza impugnata è stata annullata.

La redazione giuridica

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