Riflessioni alla luce dell’intervento del Ministro Orlando alla sezione femminile del carcere di Rebibbia.

«In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati».(articolo 3 della Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia).

Risale a qualche mese fa, l’intervento che il nostro ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha tenuto alla presenza del presidente della commissione dei Diritti umani al Senato Luigi Marconi e della senatrice Anna Finocchiaro, nel corso di un incontro tenutosi presso la sezione femminile del carcere di Rebibbia, e durante il quale si è discusso del tema assai delicato dei bimbi, figli di madri detenute che trascorrono i primissimi anni della propria infanzia all’interno degli istituti carcerari. Il fenomeno in Italia, in verità, non è di grandi dimensioni. Si calcolano circa 50 bambini in queste condizioni. Questo, tuttavia, non attenua la rilevanza del fenomeno. Al contrario, urge una presa di coscienza generale, rispetto a una questione che ben inteso, non è di facile soluzione. Gli interessi da bilanciare sono ampi e delicati. Quello che subito viene spontaneo domandarsi è: ma le leggi che si sono susseguite negli anni per far fronte al problema delle detenute madri e i propri bambini hanno realmente tutelato l’interesse del minore? Il fatto che l’ambiente carcerario non sia il luogo adatto ove farvi crescere un minore è cosa certa. Ma cosa ancor più certa è il suo diritto a vivere e formare la propria personalità serenamente. E non può certo nascondersi che il carcere, ambiente di restrizioni e luogo di limitazioni, non garantisce la libertà di svilupparsi, non solo in senso fisico ma anche psicologico e relazionale.

Il carcere non può minimamente adattarsi alle esigenze dei bambini, al contrario, esso impone loro le stesse limitazioni e ritmi di vita previsti per gli adulti detenuti. E l’ambiente carcerario non si configura certo come un luogo sicuro, edificante, in cui i bambini possono esplorare liberamente e quindi conoscere. Non solo. All’interno del carcere, i bambini vivono delle privazioni affettive, relazionali oltreché, sensoriali molto gravi. Si pensi soltanto al fatto che negli istituti penitenziari le relazioni sociali si limitano ai rapporti con le guardie carcerarie, che nelle sezioni femminili sono donne, e con le altre carcerate. Vi è, dunque, una totale assenza della figura maschile con la quale il bambino possa confrontarsi e sperimentare un rapporto solido, impedendo peraltro, al genitore di essere una figura di riferimento per lui. Ma allora ci si chiede, perché il nostro ordinamento permette e tollera una simile condizione? Gli spunti di ragionamento sono davvero molteplici. C’è chi parla di scandalo, di infanzia violata, di diritti compromessi, di grande sconfitta e vergogna per uno Stato democratico, ma in verità la questione è assai più complessa. Non servono giri di parole o convenevoli per dire che un bambino in cella non può stare. Ma si deve anche cercare di preservare (ragionevolmente!!!) il rapporto che il minore deve avere con la propria madre.

Il 21 marzo 2014 è stata firmata, per la prima volta in Europa «la Carta dei figli dei genitori detenuti» la quale «riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto del medesimo alla genitorialità». La Carta è il risultato del protocollo d’intesa fra il Ministro della Giustizia, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dal Presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre volto a promuovere i diritti dei minori, istituendo un tavolo permanente composto dai rappresentanti dei tre soggetti firmatari, per monitorare periodicamente l’attuazione dei punti previsti dalla Carta (Art. 8). Sono 8 gli articoli che nell’interesse del bambino stabiliscono, secondo gli organi preposti e le relative competenze, questioni come le decisioni e le prassi da adottare in materia di ordinanze, sentenze ed esecuzione della pena (Art. 1); le visite dei bambini all’interno degli Istituti penitenziari (Art. 2); gli altri tipi di rapporto con il genitore detenuto (Art. 3); la formazione del personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile (Art. 4); le informazioni, l’assistenza e la guida dei minorenni figli di genitori detenuti (Art. 5); la raccolta dei dati che forniscano informazioni sui figli dei genitori detenuti, per rendere migliori l’accoglienza e le visite negli Istituti penitenziari (Art.6); la permanenza in carcere dei bambini in casi eccezionali, qualora cioè al genitore non fosse possibile applicare misure alternative alla detenzione (Art. 7).

In verità, il tema delle madri detenute con i propri figli, era stato già affrontato in passato nel 1975 con la legge n. 354 Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà di modifica della precedente disposizione normativa in materia. L’art. 11 stabiliva che: «In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido». Successivamente, nel 1986 venne varata la legge n. 663, detta “legge Gozzini”, Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure private e limitative della libertà, la quale tra le novità più importanti introdusse la possibilità per il condannato di ottenere, almeno in parte, le misure alternative direttamente dallo stato di libertà con il preciso scopo di sottrarre il condannato dal contatto con l’ambiente carcerario. Per quanto riguarda la detenzione domiciliare, essa prevedeva come condizioni per la sua concessione una pena o un residuo di pena inferiore a due anni, nel caso fosse stato concesso a madre o donna incinta, richiedeva che il/i figlio/i fosse/fossero di età inferiore a tre anni e fosse/fossero con lei conviventi. Non era previsto, tuttavia, che il padre, nel caso di morte della madre, potesse usufruire del medesimo beneficio.

Fece seguito, la legge n. 165 del 27 magio 1998, “Legge Simeone-Saraceni”, che allargò leggermente il campo di applicazione domiciliare e della semidetenzione, senza tuttavia stravolgere l’impianto di partenza.  Si arriva così alla legge n. 40 dell’8 Marzo 2001, Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori, meglio conosciuta come “Legge Finocchiaro”, la quale essenzialmente, tutela il rapporto genitori-figli dando vita a due nuovi istituti; la detenzione domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno di figli minori. Obiettivo principale della legge era evitare che a detenute madri si aggiungessero «detenuti bambini» e per tali motivi, la legge ampliava la possibilità per le madri detenute di assicurare ai figli assistenza in un vero ambiente familiare grazie agli istituti del differimento della pena e della detenzione domiciliare. La prima modifica introdotta dalla “legge Finocchiaro” riguardava l’articolo 146 c.p., ove si prevedeva il rinvio obbligatorio della pena per le donne incinta o per le madri di bambini di età inferiori ad un anno. E l’art. 147 c.p  sul rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per le madri con figli di età inferiore ai tre anni. Quanto invece, ai due nuovi istituti, la detenzione domiciliare speciale avrebbe permesso l’assistenza familiare ai figli di età non superiore a dieci anni da parte delle madri condannate quando non fosse possibile l’applicazione della detenzione domiciliare ordinaria (articolo 47-quinquies). Per accedere a tale beneficio era necessario aver espiato almeno un terzo della pena, che vi fosse l’insussistenza di un reale pericolo di commissione di nuovi reati, oltre alla concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Nel caso non fosse applicabile tale misura, la «legge Finocchiaro» prevedeva l’assistenza all’esterno dei figli minori, con la quale si sarebbe assicurata la cura e l’assistenza extra carceraria dei figli di età non superiore a dieci anni. Fu, poi,  con la legge n. 62 del 2011, Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, che si arrivò all’innalzamento del limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le proprie madri da tre a sei anni.

La legge disponeva, inoltre, la custodia in istituti c.d. Icam (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri) in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare che  questi bambini avessero un’infanzia dietro le sbarre. Gli istituti sono pensati e strutturati in modo tale da non ricordare il carcere. L’intento era quello di creare un ambiente “famigliare”che accogliesse le madri con i propri figli; il personale di sorveglianza  lavora senza divisa e la presenza constate di alcuni educatori specializzati assicura agli ospiti, oltre che un supporto umano, anche una opportunità di formazione alle madri e un sostegno nel rapporto affettivo con i figli. È doveroso sottolineare che al compimento del limite di età imposto dalla legge, il bambino non può restare con la madre e viene obbligatoriamente allontanato da quest’ultima. Se, nel frattempo, non sono mutate le condizioni per cui era stato affidato in carcere (assenza di supporti esterni o parenti all’estero, padre assente o detenuto), il bambino viene affidato a una famiglia affidataria o a un istituto assistenziale.

La previsione del diritto della madre detenuta di ospitare con sé il figlio, costituisce indubbiamente una misura penitenziaria con finalità sia umanitarie che di recupero sociale della detenuta – si è detto, in quanto consente alla madre, pur garantendo la sua sottoposizione a pena detentiva o a custodia cautelare in carcere, l’esercizio del ruolo genitoriale in modo compiuto; consente altresì che il bambino non sia privato dall’affetto e dalle cure materne, a beneficio della tutela della sua salute e della sua crescita emotiva e sociale (S. Monetini, I bambini ospitati negli istituiti penitenziari femminili con le madri detenute. Il ruolo dell’amministrazione penitenziaria). Sono, tuttavia, seguite molte critiche e proteste nei confronti del nuovo disegno di legge, in particolare, da parte delle associazioni che si occupano di madri e bambini in carcere, le quali lamentavano la drammatica conseguenza che prevedibilmente sarebbe seguita all’innalzamento del limite di età dei figli che possono vivere in carcere con le proprie madri: l’aumento del numero dei bambini dietro le sbarre.

Ma perché, allora, è così importante preservare il legame di attaccamento tra madre e figli? Importanti studi psicologici hanno spiegato l’essenzialità di questo rapporto sin dai primissimi anni di vita del minore. Il primo autore che lo ha proposto come concetto chiave per spiegare le ripercussioni comportamentali future dei bambini “detenuti” è stato John Bowlby, un ricercatore britannico che vi creò una vera e propria teoria intorno. Secondo l’autore inglese, il bambino, appena nato, è naturalmente portato a sviluppare un forte legame di attaccamento con la madre o col caregiver, ossia con colui che si prende cura di lui. Nella specie egli approfondisce lo studio del comportamento infantile, in situazioni di distacco dalla madre (Attacchment and loss, I, London, Hogathpress, 1969). La figura materna ha un’importanza fondamentale per il bambino e per essa l’autore intende la persona che accudisce il bambino, che di solito, ma non sempre, corrisponde alla madre naturale. Dopo aver condotto numerosi studi, Bowlby ha potuto affermare che col passare degli anni, l’aumento del raggio di percezione del bambino e il livello superiore della sua capacità di comprensione degli avvenimenti, porta quest’ultimo ad avere sempre maggiore consapevolezza di un possibile distacco dalla propria madre, tanto che quando questo si verifica – anche se solo temporaneo- può avere effetti devastanti sul minore: durante il primo anno il bambino solitamente, protesta specialmente quando viene messo nella culla, poi quando si accorge che la madre sparisce dalla sua visuale. Col passare del tempo, un bambino che al momento in cui la madre si allontana è distratto da altro, protesta soltanto quando inizia a rendersi conto che ella non c’è più. Da quel momento in poi sarà sempre più vigile ai movimenti della madre e dopo il dodicesimo mese di vita sarà in grado di prevedere, in base al comportamento della madre, un suo imminente allontanamento protestando ancor prima che questo si verifichi.

Il comportamento di attaccamento nei bambini – afferma Bowlby – si presenta generalmente forte e frequente fino ai tre anni di età. Superata questa fase, essi si mostrano più in grado di accettare un temporaneo allontanamento della propria madre (ad esempio all’asilo, prendendo parte a  giochi con gli altri bambini). Sempre secondo l’autore i bambini dopo il terzo anno di età si manifestano più sicuri in un ambiente sconosciuto e più propensi ad instaurare forme di attaccamento sostitutive come con un parente o insegnante. Ci sono però delle condizioni specifiche perché questo attaccamento “sostitutivo” si verifichi: deve trattarsi di persone che il bambino conosce o che abbia conosciuto per il tramite della madre . Il punto che, tuttavia, qui rileva è l’ipotesi di distacco precoce del bambino dalla propria madre. Si è osservato che “un bambino fra i 15 e i 30 mesi che abbia goduto di una relazione ragionevolmente sicura con la madre, e successivamente distaccatone precocemente reagisce di solito con una sequenza comportamentale prevedibile che si può suddividere in tre fasi: protesta, disperazione, distacco. Ebbene, non occorre soffermarsi ad analizzare ciascuna delle predette fasi, per capire la drammaticità dell’evento. Sono davvero tante le domande cui allora, dovremmo cercare di rispondere: E’ possibile accettare l’idea che una donna che abbia sbagliato possa essere al stesso tempo una madre? È giusto spezzare il legame tra una madre e un figlio? Ma soprattutto quali effetti avrà il bambino che in quella figura, oltre che l’oggetto affettivo principale, vede anche l’unico punto di riferimento?

La vita di un bambino, figlio di madre detenuta, è segnata da una serie di un passaggi e  di eventi dolorosi, passaggi che vedono l’esistenza di un legame affettivo eccessivo con la propria madre, fino al completo distacco (forzato) da questa. All’interno del carcere, il legame che si viene a creare con la madre, molto spesso è un rapporto non sano, e spesso caratterizzato da una totale dipendenza da questa figura, iperprotettiva, e troppo fragile al tempo stesso. Si racconta che solitamente una madre detenuta, sviluppa un comportamento contraddittorio verso il proprio bambino; infatti, se da un lato manifesta un’attaccamento morboso nei suoi confronti, dall’altro è presente un atteggiamento permissivo e protettivo. Egli è l’unica ragione che tiene vivo il desiderio e la voglia di cambiamento e di riscatto sociale. Non solo. Non va, peraltro, trascurato il ruolo e l’incidenza che l’istituzione penitenziaria ha nei confronti del bambino, della madre e del loro intimo equilibrio. L’istituzione solitamente, si sostituisce alla madre in tutto e per tutto, specie in quelle attività esterne previste per i bambini, come le passeggiate, gli accompagnamenti al nido, dalle quali la madre è evidentemente esclusa. La reclusione determina quindi delle forti limitazioni allo svolgimento del ruolo genitoriale, precludendo un sano legame tra madre e figlio. Il ruolo che una madre avrebbe in condizioni di normalità non è riproducibile in un luogo di detenzione. È’ la normativa che lo impone ! La madre (purtroppo e a volte per fortuna), non può esercitare in piena autonomia il diritto di educare il proprio piccolo, tutto è rimesso alle concessioni e alle regole del sistema penitenziario. Il bambino questo lo sente. Anche se molto piccolo, percepisce che la situazione non viene gestita dalla madre. Egli, però, ha bisogno di una figura piena di amore che si prenda cura di lui, che lo protegga, ma anche di una figura autorevole e, in carcere, molto spesso si racconta di bambini che prendono come riferimento le figure che ivi esercitano l’autorità, come ad esempio il personale penitenziario.

La condizione di carcerazione, è di per sé un evento traumatico. Come può un bambino ai primissimi anni della propria vita esservi “costretto”? Non ha forse egli, lo stesso diritto di tutti i bambini, all’amore, alla cura e alla protezione? Non ha forse anch’egli diritto alla propria dignità? Ma non è tutto. Come anticipato, al momento del raggiunto del limite di età previsto dalla legge, i bambini devono lasciare il carcere e separarsi dalla propria madre. Non esiste cosa peggiore! Inutile raccontare, quali gravissime conseguenze fisiche, comportamentali, psicologiche, relazionali ne possano derivare. Ma allora, la domanda iniziale? Le leggi fino ad oggi susseguitesi hanno davvero fatto l’interesse del bambino? Non basta dire che questi bambini sono creature innocenti e che hanno avuto la sfortuna di nascere in un momento sbagliato; non basta dire che che la responsabilità penale è personale e che, questi non hanno nessuna colpa , tanto meno quella di scontare una pena per un fatto che non hanno commesso.

Resta il fatto che essi saranno bambini “condannati” a vita, se non si prova ad intervenire in maniera decisa. Da sempre, si è tentato di trovare un equilibrio, di bilanciare due interessi opposti, l’interesse alla preservazione della relazione madre-figlio, e l’interesse a che il minore non cresca in un ambiente non adatto come quello carcerario. Ma le tutele fin’ora apprestate sono vacillanti, precarie ! La vita carceraria non è, e non potrà mai essere adatta a un minore. Cosi come non è umanamente accettabile provocare una sofferenza così grande come quella di allontanare forzosamente il minore dalla propria madre, una volta raggiunta l’età stabilita. Che ne sarà poi del bambino, catapultato da un ambiente angusto, stretto, circoscritto, in una realtà nuova, circondato da affetti di perfetti “sconosciuti”?. Come agire allora? Molti hanno visto la soluzione negli Icam. Ma è davvero così? La verità è che, per quanto queste strutture siano state pensate ed organizzate in modo tale da lasciar perdere qualsiasi riferimento con l’ambiente carcerario, stretto, circoscritto e limitato, ma pur sempre di struttura penitenziaria si tratta. Gli Icam sono strutture detentive a tutti gli effetti, che fanno direttamente capo all’Amministrazione Penitenziaria  e la loro impostazione non è assolutamente idonea a far fronte alle esigenze dei bambini. L’interesse superiore del minore, non può essere scambiato con la mera esigenza di garantire a quest’ultimo un qualunque rapporto affettivo o cure materiali esteriori: non è sufficiente! E’ questione di libertà, dignità, è la vita del minore e dell’adulto che sarà ad entrare in gioco!

Avv. Sabrina Caporale

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