Malattia professionale da mobbing: è indennizzata dall’Inail se riconducibile al rischio del lavoro.

Malattia professionale da mobbing: La Suprema Corte ne suggella l’indennizzabilità da parte dell’Inail.

Malattia professionale da mobbing: “In materia di assicurazione sociale, debbono ritenersi indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che essa riguardi la lavorazione, sia l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione. È incongrua qualsiasi distinzione in tal senso, posto che la persona è coinvolta nel lavoro in tutte le sue dimensioni, venendo sottoposta a rischi rilevanti non solo per la sfera fisica, ma anche per quella psichica”: in tal senso Cassazione Civile, Sez. lav., Sentenza n. 8948 del 14/05/2020.

La Corte d’Appello di Perugia, con la sentenza n. 103 del 2013, in accoglimento del gravame proposto dall’INAIL, respingeva la domanda del lavoratore diretta ad ottenere il riconoscimento della natura professionale della malattia derivante dalla condotta vessatoria tenuta nei suoi confronti dal datore di lavoro.

La Corte di merito riteneva non rientrante nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria la malattia non direttamente derivante dalle lavorazioni elencate nell’art. 1 D.P.R n. 1124 del 1965, ma da situazioni di costrizione organizzativa, come il mobbing.

Il lavoratore ricorre in Cassazione, lamentando, per quanto qui di interesse, il mancato riconoscimento da parte dell’Inail della malattia professionale da mobbing.

Gli Ermellini richiamano l’orientamento secondo il quale, in materia di assicurazione sociale di cui all’art.1 del D.P.R. n. 1124 del 1965, ciò che rileva non è soltanto l’alea propria della lavorazione, ma anche il c.d. rischio specifico improprio, ossia non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con quest’ultima.

Un ampliamento della tutela assicurativa è stata realizzato attraverso l’individuazione delle attività protette dall’assicurazione e dei soggetti tutelati nell’ambito dell’attività lavorativa, ovverosia tutti i soggetti che frequentano lo stesso luogo, con irrilevanza della manualità della mansione, ed a prescindere dal fatto che siano addetti alla stessa macchina.

La Suprema Corte ritiene non corretta la tesi seguita dal Giudice di merito secondo cui l’assicurazione obbligatoria non coprirebbe patologie non correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle.

Il lavoratore, infatti, deve solo provare l’origine professionale della malattia, essendo venuti meno anche i criteri selettivi del rischio professionale. Su quest’ultimo aspetto, ha puntualizzato la Corte, non potrebbe sostenersi che la vincolatività della tabellazione sia venuta meno solo per la malattia (art. 10, comma 4, d.lgs. n. 38 del 2000) e sia invece sopravvissuta ai fini dell’identificazione del rischio tipico, ex artt. 1 e 3 D.P.R. n. 1124 del 1965.

Ciò significa che  nell’ambito del sistema del T.U., sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione, posto il coinvolgimento della persona del dipendente nella sua interezza nell’ambito del lavoro, con rischi per la sfera psichica e fisica (cfr., oggi, a fini preventivi l’art. 28, comma 1 del T.U. n. 81 del 2008).

E, dunque, proprio in virtù del coinvolgimento del lavoratore deve essere riconosciuta la malattia professionale da mobbing in quanto scaturisce da comportamenti afflittivi e umilianti del datore di lavoro.

La tecnopatia deve derivare dall’attività lavorativa, il cosiddetto requisito della occasione lavoro/causa lavoro.

Ebbene, l’“occasione di lavoro” (art. 2 T.U.) sussiste non solo quando l’attività lavorativa sia stata causa dell’infortunio, ma anche quando essa abbia comunque agevolato o reso possibile il verificarsi dello stesso, senza che rivesta alcuna importanza il fatto che l’evento dannoso si sia verificato durante l’orario e nel luogo di lavoro, il che è evidente nelle ipotesi di infortunio in itinere.

Ed ancora, il nesso eziologico richiesto dall’art. 3 T.U. per le malattie professionali, invece, veniva interpretato nel senso di escludere dal perimetro della tutela quelle patologie in rapporto di mera occasionalità con il lavoro, non costituenti una conseguenza della prestazione in senso stretto (c.d. malattie professionali in itinere).

L’espressione “causa lavoro”, come noto, ha acquisito un significato differente in seguito alle modifiche apportate all’art. 3 T.U. dalla Corte Costituzione n. 179 del 1988: “è illegittimo nella parte in cui non prevedeva che l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria dovesse essere obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate (causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle stesse), purché di tali patologie fosse stata provata la “causa di lavoro”.

La decisione a commento palesa proprio questo distacco dalla nozione di rischio assicurato, o di traslazione del rischio, onde garantire una piena tutela dei lavoratori.

Alla luce di quanto sopra, appare più aderente al dettato normativo ed ai principi costituzionali quell’orientamento giurisprudenziale che, nel corso degli ultimi anni, ha sostenuto un’interpretazione estensiva del perimetro della tutela assicurativa, includendovi ogni danno provocato dal lavoro in senso lato e, quindi, anche dall’ambiente lavorativo.

Di talchè è del tutto rientrante nella tutela obbligatoria la malattia professionale da mobbing.

La malattia professionale da mobbing, difatti, deriva da una situazione di conflittualità persistente in cui il dipendente, nell’ambito del contesto lavorativo, è destinatario di condotte, anche di per sé lecite, dirette a causare nel medesimo danni di vario tipo e gravità (c.d. intento persecutorio), ergo non può escludersi che l’eventuale malattia da esse determinata nel lavoratore sia riconducibile all’attività dalla medesima svolta.

La Corte rammenta, infine, che l’ambito delle malattie professionali è stato esteso anche alla patologia riconducibile all’esposizione al fumo passivo di sigaretta subita dal lavoratore nei luoghi in cui il medesimo prestava la propria prestazione, riconoscendo la meritevolezza di tutela dell’episodio morboso che, sebbene non direttamente riconducibile ad un’attività pericolosa ex se, era connesso al fatto oggettivo dell’esecuzione di un lavoro all’interno di un determinato ambiente (Cass., n. 3227 del 2011).

Avv. Emanuela Foligno

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