La Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 2326 depositata in cancelleria in data 5 febbraio 2016, ha analizzato il noto problema della sussistenza o meno del nesso di causalità tra la malattia del de cuius e l’attività lavorativa dallo stesso svolta.

Con l’espressione “nesso di causalità” si indica quel rapporto tra l’evento dannoso e il comportamento del soggetto (autore del fatto), astrattamente considerato.
 Il legame eziologico tra la condotta (commissiva o omissiva) e l’evento, rappresenta la conditio sine qua non per l’attribuibilità del fatto illecito (e, quindi, del danno) al soggetto: in altre parole, la modificazione del mondo esterno (l’evento) può essere imputata a una persona solo se la stessa sia conseguenza della sua condotta.

Pertanto, parliamo dell’elemento che “lega” l’evento (dannoso o pericoloso) alla condotta, essendo il primo conseguenza della seconda (azione o omissione) (art. 40 c.p.).

Nella fattispecie in esame, la Cassazione era tenuta a pronunciarsi sull’impugnazione della sentenza dell’11/12/2013 – 27/01/2014 emessa dalla Corte di Appello di Roma la quale, dopo aver rilevato che gli esiti degli elaborati peritali avevano confermato l’esistenza del nesso di causalità tra il rilievo di neoplasia gastrica, che aveva condotto al decesso del lavoratore, e l’attività lavorativa svolta dal medesimo, aveva condannato la società datrice di lavoro al risarcimento, in favore degli eredi dell’ex dipendente, del danno biologico e morale subito a seguito del decesso di quest’ultimo, causato da accertata malattia professionale.

La società soccombente, pertanto, proponeva ricorso in cassazione sostenuto da tredici diversi motivi in diritto.

Nello specifico, i punti che più riguardano le problematiche inerenti il nesso di causalità sono da individuare nel terzo e nel quarto motivo che esamineremo, brevemente, in ordine contrario.

Col quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente lamentava, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità, l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio consistenti nell’abitudine al fumo di sigarette del de cuius e nella sua pregressa attività di imbianchino.

Orbene, tale motivo, a parere della S.C., è risultato inammissibile.

Infatti, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convenuto nella L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis” alla fattispecie, la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia viziata da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente e immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili.

Ma è evidente come, nella specie, la valutazione di esistenza del nesso causale non fosse affetta da alcuna di queste ultime anomalie, avendo il Giudice di merito espresso in modo chiaro e comprensibile i motivi a sostegno della sua ricostruzione in punto di verifica dello stesso nesso causale.

In definitiva, secondo la Corte, alla luce del novellato disposto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente non avrebbe prospettato fatti decisivi, la cui valutazione avrebbe comportato di sicuro un diverso esito del giudizio che è, invece, radicato sugli esiti della perizia medico legale e sugli accertamenti compiuti in sede penale ed autonomamente apprezzati in sede civile dai giudici di merito.

Invece, col terzo motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2087, 2697, 2727 e 2729 c.c., art. 115 c.p.c., e art. 41 c.p., la ricorrente lamentava come la Corte Territoriale fosse ricorsa erroneamente al criterio presuntivo di adeguata probabilità nella causazione dell’evento per poter affermare la responsabilità datoriale, poiché in questo caso sarebbe spettato al lavoratore, ai fini del risarcimento per malattia professionale, l’onere di provare il nesso di causalità tra attività professionale e malattia contratta, non operando alcuna presunzione di nesso eziologico.

Inoltre, secondo la difesa di parte ricorrente, le regole che il Giudice avrebbe dovuto osservare nell’accertamento del nesso causale prevedevano un ulteriore giudizio di “bilanciamento” dei diversi fattori esistenti.

Nel caso di specie, tali fattori alternativi erano rappresentati dall’abitudine al fumo di sigarette del lavoratore e dalla pregressa attività lavorativa di imbianchino.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato in quanto  “in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’ “equivalenza delle condizioni”, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni”. (Cass. sez. lav. n. 13954 del 19/6/2014)

Quanto alla questione del riparto dell’onere della prova la S.C. Osserva che qualora eventi lesivi abbiano a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano casualmente ricollegabili, come dimostrato nella fattispecie, alla nocività dell’ambiente di lavoro, viene in rilievo l’art. 2087 c.c., che come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato, (v. in tal senso anche Cass. sez. lav. n. 20142 del 23/9/2010).

Cosicché “in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell’art. 2087 c.c., la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte, ma è comunque soggetta all’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. (Cass. sez. lav. n. 8855 dell’11/4/2013, Cass. sez. lav. n. 19826 del 28/8/2013).

Orbene, nella fattispecie la Corte d’Appello ha fornito adeguata motivazione del proprio convincimento sulla colpevolezza della datrice di lavoro condividendo il giudizio del Giudice di primo grado, il quale aveva correttamente ravvisato sussistere, all’esito degli elaborati peritali, il nesso di causalità tra la neoplasia gastrica, che aveva provocato il decesso del lavoratore, e l’attività lavorativa dal medesimo svolta con riferimento alle sostanze inalate nello svolgimento dell’attività presso il reparto mescole. Inoltre, la stessa Corte ha evidenziato che nella sentenza penale di primo grado n. 1420 del 2008 del Tribunale di Latina, che aveva dichiarato la responsabilità penale dei dirigenti della società per i reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p., era stato accertato che i dispositivi di protezione individuali utilizzati dalla società non erano idonei.

Osservazione che veniva poi confermata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 465 del 2013, la quale  rilevava esserci stata violazione anche in merito alla mancata adozione di dispositivi volti alla riduzione del rischio di inalazione delle polveri nocive ed alla separazione dei luoghi nei quali si utilizzavano sostanze cancerogene.

Alla luce di quanto appena esposto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso comminando, alla ricorrente, le consequenziali sanzioni.


Avv. Alberto Stocco

Avv. Stab. Federica Pagliarella

BLB Studio Legale Labour Dept

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