La Cassazione ha stabilito che coltivare una sola piantina di marijuana non è reato

Coltivare marijuana è reato? Se si tratta solo di una piantina, no. A stabilirlo, la la sentenza n. 40030 del 26 settembre 2016 della Corte di Cassazione.

Nel caso valutato dalla Corte, un uomo era stato condannato per la detenzione in terrazzo di un’unica piantina, la quale presentava un principio attivo di THC pari al 1,8%.

In primo e secondo grado il Tribunale aveva assolto l’uomo, motivando la scelta col fatto che “la percentuale di principio attivo ricavabile dalla pianta, tale da garantire n. 12 dosi, ciascuna determinata secondo la dose media singola indicata dal d.m. 11 aprile 2006 in 25 mg.”, consentisse “ragionevolmente di apprezzare un uso personale della sostanza e, nell’esclusione di una possibile diffusione o ampliamento della coltivazione della stessa”, escludendo, altresì, “la lesione al bene giuridico che la norma di previsione della contestata fattispecie intende tutelare”.

Il Procuratore della Repubblica, non soddisfatto, ha proposto il ricorso in Cassazione, contestando che “l’irrilevanza della quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza dalla pianta oggetto di coltivazione, rinvenendosi invece nella conformità di quest’ultima al tipo botanico previsto e nella sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente, un riscontro in concreto della offensività della condotta”.

La Cassazione ha però nuovamente assolto l’uomo, poiché “la punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa soltanto se il giudice ne accerti l’inoffensività “in concreto” ovvero quando la condotta sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa, restando in tal senso non sufficiente l’accertamento della conformità al tipo botanico vietato”. “Ai fini dell’offensività della condotta e della correlata punibilità – continua la Corte Costituzionale – il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi valutare anche l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, al fine di verificare se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato”.

In questo caso, prosegue la Cassazione, la “coltivazione di una unica pianta di canapa indiana, curata in vaso e posizionata su un terrazzo di abitazione collocata in contesto urbano” e, pertanto, doveva obiettivamente escludersi “che da detta coltivazione possa derivare quell’aumento nella disponibilità della sostanza stupefacente e quel pericolo di ulteriore diffusione che sono gli estremi integrativi della offensività e punibilità della condotta ascritta”.

 

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