Con una recente decisione pubblicata il 23/08/2016, il Tribunale di Milano, Sezione 1 ^ Civile, Giudice Dr.ssa Martina Flamini, interviene nuovamente sulla dibattuta problematica relativa alla natura giuridica della responsabilità del medico per i danni cagionati al proprio paziente, riconducibili ad un comportamento colposo del medesimo, collocandosi in quel filone, soprattutto della giurisprudenza meneghina la quale inquadra il rapporto che si instaura con il medico (esercente la professione sanitaria) in quelli di natura extracontrattuale.

È di tutta evidenza l’importanza del contributo esegetico fornito dal Tribunale di Milano, laddove si consideri che l’appartenenza all’una, piuttosto che all’altra categoria giuridica, rileva sotto vari profili giuridici, a cominciare con il diverso riparto dell’onere probatorio.

È appena il caso di rilevare infatti: 1) che una diversa disciplina si applicherebbe in tema di prescrizione, decennale per la responsabilità contrattuale, quinquennale per quella  extracontrattuale; 2) che in tema di prevedibilità del danno, nella responsabilità contrattuale la prova dell’elemento soggettivo dell’illecito è presunta, salvo quella contraria; 3) che, con riguardo  al carico probatorio su ciascuna delle parti, l’attore (danneggiato) deve provare, nella responsabilità ex contractu, l’esistenza del negozio e l’insorgenza o l’aggravamento delle patologia ed allegare l’inadempimento del debitore astrattamente idoneo a provocare il danno (cfr in tal senso Cass. S.U. 577/2008), mentre il medico è tenuto a dimostrare che non vi è stato inadempimento o che lo stesso non è stato eziologicamente rilevante, laddove, al contrario, nella responsabilità da lex Aquilia del medico convenuto in giudizio, l’attore deve dimostrare tutti gli elementi di cui all’art. 2043 CC (condotta colposa o dolosa, nesso causale, danno ingiusto) con la conseguenza che difettando uno di essi, la domanda di risarcimento non potrebbe essere accolta (v. Cass. 2422/2014). Orbene, la vulgata giuridica maggioritaria, è orientata ad inquadrare nel catalogo della responsabilità contrattuale non solo quella della struttura sanitaria – cui si rivolge il malato per essere sottoposto a cure mediche concludendo con la stessa un contratto atipico, c.d. di spedalità o di assistenza sanitaria, comprendente prestazioni di carattere medico-sanitario ed anche accessorie quali vitto, alloggio ed assistenza – ma anche quella del singolo medico, che opera all’interno della struttura, con la quale è legato da un rapporto di lavoro ed allorché non viene allegato un contratto d’opera professionale con lo stesso mercé, in tale ultimo caso, la teoretica giuridica del contatto sociale qualificato ricavabile dall’art. 1173 CC (in cui i protagonisti sono legati da una relazione di fatto perché sono entrati in contatto pur non avendo stipulato un vero e proprio contratto).

Gli interrogativi che in subiecta materia vengono posti e che determinano una certa insicurezza per gli operatori del settore, hanno prodotto, da parte della classe medica, per il disagio che ne  consegue, quella reazione che va sotto il nome di medicina difensiva: un fenomeno, cioè, che ha creato un certo allarme sociale che, invero, il legislatore attraverso la Legge 189/2012 (di conversione del c.d. decreto Balduzzi), secondo alcuni, voleva scongiurare restringendo o limitando la responsabilità risarcitoria delle professioni sanitarie ai fini del contenimento della spesa pubblica. Un intento, questo, sottolineato nella sentenza in commento a motivo della ritenuta natura extracontrattuale della responsabilità medica in grado di meglio assicurare, attraverso il ribaltamento dell’onere probatorio, quella prospettiva deflattiva di cui sopra si è accennato.

Abbiamo voluto richiamare il fenomeno della c.d. medicina difensiva assistendosi (oggi e ieri) ad  un atteggiamento dei medici, i quali, anche a causa della dubbia interpretazione della normativa in materia, privilegiano scelte talvolta motivate non in ragione dell’interesse esclusivo del malato, in passato ritenuto valore assoluto ed incondizionato, ma da situazioni di alto rischio che inducono a comportamenti essenzialmente omissivi (c.d. medicina difensiva negativa); altre volte, ricorrendo a trattamenti non necessari praticati in funzione precauzionale per una eventuale linea difensiva futura ma che hanno costi sociali, gravando sul Servizio Sanitario Nazionale (c.d. medicina difensiva positiva – La distinzione si trova in A. Fiori, La Medicina difensiva Riv. It. Med. Leg. 1986, 899).

La sentenza in commento richiama espressamente, nella parte motiva, la ricordata tematica  aderendo al precedente dello stesso Tribunale di Milano (decisione 9693/14) dovendosi interpretare l’art. 3 della L. 189/2012 “alla luce del chiaro intento del legislatore di restringere e delimitare la responsabilità anche risarcitoria derivante dall’esercizio delle professioni sanitarie per contrastare la spesa sanitaria ed in conformità al criterio previsto dall’art. 12 delle preleggi, che assegna all’interprete il compito di attribuire alla norma il senso che può avere in base al suo tenore letterale ed alle intenzioni del legislatore”.

L’indirizzo cui fa riferimento la decisione in commento, inaugurato a Milano con la ricordata pronuncia 9693/2014 (relatore Dr. Patrizio Gattari), preceduta da due note sentenze del 2012 e 2013 rispettivamente del Tribunale di Varese e Torino, cui sono seguite altre conformi (v. Tribunale di Milano 02/12/2014 n° 14320, Tribunale di Milano 19/07/2016 n° 9069) risulta così sinteticamente espresso: “a) l’art. 3, comma 1, della Legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto d’opera professionale (anche se nell’ambito della c.d. attività libero professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la responsabilità civile della struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la responsabilità del medico (contratto d’opera professionale) derivano da inadempimenti e sono disciplinate dall’art. 1218 CC, ed è indifferente che il creditore/danneggiato agisca per ottenere il risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di entrambi; b) il richiamo nella norma suddetta all’obbligo di cui all’art. 2043 CC, per l’esercente la professione sanitaria che non risponde penalmente (per essersi attenuto alle linee guida), ma la cui condotta evidenzia una colpa lieve, non ha nessun riflesso sulla responsabilità contrattuale della struttura anche quando derivi dall’operato dei suoi dipendenti e/o degli ausiliari di cui si è avvalsa (art. 1228 CC); c) il tenore letterale dell’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito    ex art. 2043 CC e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare); d) in ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico ospedaliero, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 CC), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo contrattuale ex art. 1218 CC (sia che si ritenga che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del contratto atipico di spedalità o assistenza sanitaria con la sola accettazione del paziente presso la struttura); e) se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 CC, che l’attore ha l’onere di provare; f) se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria presso la  quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 CC per il medico e quella ex art. 1218 CC per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 CC (cfr, fra le altre, Cass. 27713/2005).

Il caso esaminato dal Tribunale di Milano nella sentenza in commento, riguardava la vicenda di una donna affetta da un carcinoma mammario che aveva comportato la necessità di effettuare una mastectomia, del tutto evitabile qualora fossero state osservate le linee guida e la paziente  sottoposta ad ulteriori accertamenti; una diagnosi tempestiva avrebbe inoltre consentito una  prognosi quoad vitam più favorevole.

Il Tribunale di Milano, riconosceva la responsabilità di entrambi i convenuti, la struttura sanitaria ed il medico radiologo, la prima a titolo contrattuale ex art. 1218 CC, sulla base della ricordata configurabilità di “un negozio atipico a prestazioni corrispettive con elementi protettivi a favore del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dallo assicuratore del SSN o da altro Ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’Ente), accanto a quelli lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze….con la conseguenza che la responsabilità della casa di cura (o dell’Ente) nei confronti del paziente la natura contrattuale e può conseguire, ex art. 1218 CC, all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché in virtù dell’art. 1228 CC all’adempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e le sua organizzazione  aziendale  non  rilevando,  in  contrario  al  riguardo la circostanza che il sanitario risulti anche essere di fiducia dello stesso paziente o comunque dal medesimo scelto (così Cass. 2007/13953)”.

Nella specie il medico radiologo, al quale era stato addebitato l’ errore, operava nella struttura come libero professionista e, quindi, la struttura avrebbe dovuto vigilare sulle prestazioni e sul comportamento dei professionisti che presso la stessa operavano: di qui la riconosciuta responsabilità della struttura per essere stata inadempiente a tali obblighi sulla stessa gravanti oltre quelli lato sensu c.d. alberghieri ( cfr Cass. 9556 /2002).

Della responsabilità del radiologo si è già detto essendo stata fondata, in ragione di un fatto colposo che ha cagionato all’attrice un danno ingiusto derivante dalla mancata corretta valutazione di prescrivere ulteriori accertamenti, che avrebbero consentito di intervenire tempestivamente sul tumore secondo un criterio di preponderanza dell’evidenza (invero riscontrata nella fattispecie attraverso apposita CTU).

A questo punto, è bene ricordare che il contrario e maggioritario indirizzo è orientato a ritenere, in continuità con la nota sentenza della Cassazione 589/1999, la natura contrattuale della responsabilità del medico valorizzando il dato letterale della norma, oltre esigenze di coerenza sistematica interna all’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi.

Nella seconda proposizione del citato articolo, infatti (come si legge in molte sentenze), “il  richiamo all’art. 2043 CC, è preceduto dall’espressione “in tali casi”, ed è pertanto limitato espressamente ai casi in cui il medico non risponde penalmente di colpa lieve per essersi attenuto a linee guida accreditate, così come afferma la prima proposizione dello stesso. Dunque, la portata necessariamente circoscritta della disposizione in esame, preclude a priori l’effetto di ricondurre in generale la materia della responsabilità medica nell’alveo dell’illecito aquiliano”.

“D’altra parte, si invoca la ratio dell’art. 3, comma 1: il legislatore sarebbe stato infatti mosso dall’intento di escludere espressamente la responsabilità penale e di precisare che, tuttavia, resta fermo l’illecito civile, per cui il richiamo all’art. 2043 CC, si giustifica non per la volontà di qualificare come extracontrattuale una responsabilità civile da tempo qualificata dalla giurisprudenza come contrattuale ma, più semplicemente, perché l’omologo civilistico della responsabilità penale, cui fa riferimento l’art. 185 c.p., è senza dubbio la responsabilità extracontrattuale, non quella contrattuale che riposa su distinti presupposti. Il riferimento all’art. 2043 CC non sarebbe quindi imputabile a una mera “svista del legislatore”, ma tuttalpiù a un fenomeno di “associazione concettuale” tra illecito aquiliano ex art. 2043 CC e danno da reato ex art. 185 c.p.”.

Lo stesso Tribunale di Milano (ma una diversa sezione, la V per la precisione) nella sentenza 13574/2013 conferma la interpretazione giurisprudenziale maggioritaria che trova un autorevole referente nella Cassazione pronunciatasi sul punto con l’ordinanza 8940/2014, secondo cui: “l’art. 3, comma 1, L. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 CC, poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto  preoccupato  di  escludere  l’irrilevanza  della  colpa  lieve  in  ambito  di    responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni” (da ultimo riaffermata da Cass. 4792/2012).

Nella giurisprudenza di merito in senso favorevole alla natura contrattuale della responsabilità del medico, si segnalano ancora la Sezione V del Tribunale di Milano nella decisione 20/02/2015 n° 2336, il Tribunale di Teramo 15/02/2013 n° 139, il Tribunale di Arezzo 15/02/2013 n° 196, il Tribunale di Bari 30/04/2014 n° 2141, il Tribunale di Piacenza 11/11/2015 n° 827, il Tribunale de L’Aquila 21/01/2016 n° 37 (tutte in Redazione Giuffrè 2013-2016) e dal ultimo Tribunale di Roma Sez. XIII 16/03/2016 n° 5463 di cui si riporta un passo significativo della pronuncia: “a parere di questo giudice non sussistono ragioni per ritenere che la novella legislativa possa aver inciso direttamente sull’attuale costruzione della responsabilità medica secondo il diritto vivente e che debba imporre un revirement giurisprudenziale nel senso del ritorno ad un’impostazione aquiliana, con le consequenziali ricadute in punto di riparto degli oneri probatori e di durata del termine di prescrizione.

Va considerato che il riferimento all’art. 2043 CC, sia del tutto neutro rispetto alle regole applicabili e consenta di continuare ad utilizzare i criteri propri della responsabilità contrattuale.

Va ulteriormente considerato che, se fosse vero che il richiamo all’art. 2043 CC impone l’adozione di un modello extracontrattuale, si dovrebbe pervenire, a rigore, alla conseguenza inaccettabile di doverlo applicare anche alle ipotesi pacificamente contrattuali, dal momento che il primo periodo dell’art. 3, 1 co., considera tutte le possibili ipotesi di condotte sanitarie idonee ad integrare reato (che possono verificarsi indifferentemente sia nell’ambito di un rapporto propriamente contrattuale, quale quello fra il paziente e il medico libero professionista, che in un rapporto da contatto sociale) e il secondo periodo richiama tutte le ipotesi di cui al primo periodo (“in tali casi”), senza operare alcuna distinzione fra ambito contrattuale proprio ed assimilato; non sarebbe dunque, consentita la limitazione (affermata per certa da Tri. Varese cit.) del ripristino del modello aquiliano per le sole ipotesi di responsabilità da contatto. Deve, allora, pervenirsi alla ragionevole conclusione che, conformemente al suo tenore letterale, alla collocazione sistematica e alla ratio dell’intervento normativo (da individuarsi nella parziale depenalizzazione dell’illecito sanitario), la norma del secondo periodo non ha inteso operare alcuna scelta circa il regime di accertamento della responsabilità civile, ma ha voluto soltanto far salvo (“resta comunque fermo”) il risarcimento del danno anche in caso di applicazione dell’esimente penale, lasciando l’interprete libero di individuare il modello da seguire in ambito risarcitorio civile. Pertanto, anche nel caso in esame debbano applicarsi i criteri propri della responsabilità contrattuale”.

In buona sostanza l’interpretazione più corretta cui sembra riferirsi il Tribunale di Roma, nella decisione appena citata, avallata attualmente dalla Cassazione, deve condurre a ritenere che l’intervento normativo de quo abbia realizzato un fenomeno di parziale abolitio criminis con riferimento alle condotte del medico che rispettano delle linee guida in materia sanitaria del paziente.

In tal senso, il medico che sia incorso esclusivamente in un difetto di perizia, pur essendosi attenuto alle buone pratiche e linee guida approvate dalla scienza medica, risponde solo per colpa grave (primo periodo dell’art. 3, comma 1, L. 189/2012).

Quanto sopra con riguardo ai profili penalistici in quanto tale distinzione non si estende alla responsabilità civile dove il medico che arrechi un pregiudizio al paziente, a prescindere dal difetto di diligenza in cui incorre, risponde sia se abbia rispettato le linee guida, sia se non lo abbia fatto (secondo periodo dell’art. 3, co. 1, L. 189/2012).

Queste costituiscono, secondo la S.C. (Cass. Pen. 03/12/2016 n° 4468), un sapere scientifico e tecnologico codificato che orienta più facilmente le decisioni terapeutiche, per uniformare le valutazioni e minimizzare le decisioni soggettive del medico. Esse non rappresentano norme cautelari da seguire e non configurano ipotesi di colpa scientifica.

Tentando di tradurre in un linguaggio meno tecnico quanto affermato dal S.C. in tema di responsabilità del medico, potrebbero prospettarsi le seguenti conclusioni.

  1. Dal punto di vista penalistico, l’art. 3 L. 189/2012, nella parte in cui esclude la colpa grave, non troverebbe applicazione nelle ipotesi di comportamenti negligenti del sanitario (Cass. Pen. 28/09/2014 n° 36347). La colpa lieve sarebbe esclusa solo nei comportamenti imperiti e cioè quando il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto.
  2. Dal punto di vista civilistico, la distinzione, come visto, non si applica in detto ambito rispondendo il medico, che abbia arrecato un pregiudizio al proprio paziente, a prescindere dal difetto di diligenza e dall’osservanza o meno delle linee guida. Quest’ultime funzionerebbero come causa di esclusione della responsabilità penale per colpa lieve e nel contempo come “attenuante” della responsabilità civile, dovendo il Giudice considerare che il medico si era attenuto ad esse e ciò nonostante aveva arrecato un danno al paziente (terzo periodo dell’art. 3 L. 189/2012).

Inoltre la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave, attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, ma non alla imprudenza o negligenza di cui il medico risponde comunque (ex multis Cass. 12/03/2013 n° 60193).

Ritornando alla sentenza in commento, il Giudice milanese ha ritenuto che l’attività svolta dal medico-radiologo consistesse in indagini diagnostiche di screening effettuate secondo una tecnica  ed una metodica consolidata, non comportante alcuno dei caratteri necessari per consentire una qualificazione in termini di difficoltà.

Di qui la responsabilità del medico che, secondo un giudizio probabilistico, doveva far ritenere evitabile il pregiudizio sofferto dalla paziente con la mastectomia (un approccio chirurgico maggiormente demolitivo e più invalidante anche sotto l’aspetto estetico) che avrebbe potuto essere evitato attraverso una corretta condotta del sanitario. Ma non quella afferente il richiesto danno da perdita di chance di sopravvivenza atteso che dalla CTU emergeva come, ai fini della prognosi quoad vitam non si era verificato alcun danno risarcibile poiché le  relative prospettive , tenuto  conto del periodo ultraquinquennale intercorso libero da recidive, apparivano favorevoli

Nella liquidazione del danno concreto, per concludere, si ricorda come il Tribunale di Milano abbia applicato correttamente i principi consolidati in materia circa la imputabilità del danno iatrogeno incrementativo, inteso come danno disfunzionale che si inserisce in una situazione già compromessa, rispetto alla quale si determina un incremento differenziale del pregiudizio.

Gli interrogativi che vengono posti dagli operatori del diritto in subiecta materia riguardano i criteri che devono presiedere alla  sua concreta determinazione.

Al riguardo, viene richiamato un precedente dello stesso Tribunale Ambrosiano (sentenza 13822/2013 che, a sua volta, riprende i principi di cui alla pronuncia della S.C. 15991/2011, ove si afferma: “Qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia neonatale (concretatasi, nella specie, in un’invalidità permanente al 100 per cento), possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato (la quale non sia legata all’anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale), il giudice deve accertare, sul piano della causalità materiale (rettamente intesa come relazione tra la condotta e l’evento di danno, alla stregua di quanto disposto dall’art. 1227, comma 1, c.c.), l’efficienza eziologica della condotta rispetto all’evento in applicazione della regola di cui all’art. 41 c.p. (a mente della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione e l’omissione e l’evento), così da ascrivere l’evento di danno interamente all’autore della condotta illecita, per poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione delle diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (rettamente intesa come relazione tra l’evento di  danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all’esito prodottesi) onde ascrivere all’autore della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento di danno, bensì determinate dal fortuito, come tale da reputarsi la pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia eziologicamente riconducibile a negligenza, imprudenza ed imperizia del sanitario”.

Nel caso affrontato nella sentenza in commento, il danno iatrogeno differenziale è stato valutato, rispetto alla complessiva invalidità di P.U. (pari a al 20%), in misura  paria al 10%.

 

Avv. Antonio Arseni

Foro di Civitavecchia

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