Il consulente nominato in secondo grado aveva escluso l’eziologia professionale del mesotelioma pleurico della lavoratrice, basandosi sull’acquisizione di nuovi documenti

Si era vista rigettare, in sede di merito, la domanda di riconoscimento della rendita per malattia professionale per mesotelioma pleurico. La Corte di appello, nel riformare la sentenza di prime cure, aveva escluso, all’esito di nuova c.t.u., l’origine professionale della malattia.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte gli eredi della lavoratrice deducevano, tra gli altri motivi, violazione dell’articolo 144 t.u.i.l.m.p., come sostituito dall’articolo 2 legge 780/75, per avere la sentenza impugnata, peraltro basandosi su dichiarazioni raccolte dal consulente da persona non escussa come teste, escluso l’origine professionale della patologia sofferta dalla ricorrente, senza peraltro individuare causa diversa non professionale rilevante nell’eziologia. Con il secondo motivo lamentavano vizio di motivazione della sentenza impugnata per non aver ammesso, in violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., i testi richiesti dalla parte sulla presenza di amianto nella lavorazione.

Gli Ermellini, con l’ordinanza n. 24024/2021, hanno effettivamente ritenuto di aderire alle argomentazioni proposte, accogliendo il ricorso in quanto fondato.

La sentenza impugnata aveva infatti escluso l’origine professionale della malattia del lavoratore in ragione dell’assenza di amianto nelle lavorazioni, attribuendo valore decisivo ad immagini storiche del luogo di lavoro, dalle quali si evinceva che i freni utilizzati negli impianti erano in cuoio e non in amianto. In particolare, risultava dagli atti che la Corte territoriale avesse disposto il rinnovo della CTU in appello, autorizzando il consulente ad acquisire tutta la documentazione necessaria; il CTU, acquisite foto storiche dei telai utilizzati nelle lavorazioni (dalle quali risultava che le cinghie dei freni dei telai erano in cuoio e non in amianto), acquisite altresì le dichiarazioni di un lavoratore che aveva confermato la circostanza, e rilevato che non vi erano nelle lavorazioni altre fonti morbigene, aveva concluso per la non esposizione del lavoratore all’amianto.

La Corte territoriale, ritenuta processualmente corretta l’acquisizione documentale aveva disatteso le critiche della parte all’acquisizione di dichiarazioni da parte del ctu (ritenendo tali dichiarazioni “non decisive” ed utili “unicamente a corroborare un dato già evidente nella documentazione”), aveva quindi fatto proprie le conclusioni del CTU.

Nel caso in oggetto, pacifica la malattia (mesotelioma pleurico, malattia tabellata: v. d.P.R. n. 1124/65 e relativo all. n. 8, nonché d.m. 9.4.2008 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e d.P.R. 13.4.94 n. 336), restava a carico degli aventi causa del lavoratore solo la prova della presenza di amianto nella lavorazione cui era stato adibito.

Ciò posto, la Cassazione ha rilevato che il CTU aveva escluso che esistesse amianto nel sistema frenante delle macchine tessili in base a fotografie d’epoca fornitegli dal Comune e ad informazioni da lui assunte da un terzo. Quanto alle prove documentali, il c.p.c. prevede che i documenti siano prodotti dalle parti e ne disciplina il deposito in modo formale attraverso gli artt. 163 n. 5 e 166 c.p.c. (nel rito ordinario), gli artt. 414 e 416 c.p.c. (in quello speciale), nonché mediante gli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c.; nessuna norma prevede, invece, l’acquisizione di documenti da parte del CTU e, quindi, l’ingresso di tali documenti nel processo come allegati all’elaborato peritale. È pur vero, peraltro, che il CTU può essere autorizzato ad acquisire documenti che non siano stati previamente prodotti in giudizio e che l’art. 194 co. 10 c.p.c. prevede che il CTU possa essere autorizzato ad assumere informazioni da terzi e a eseguire piante, calchi e rilievi.

Nel caso in esame, dagli atti risultava che il CTU avesse acquisito documenti, ma non anche informazioni da terzi: ne derivava un vizio della CTU limitatamente all’acquisizione delle dichiarazioni del terzo (sicché dovrebbe essere escluso anche il valore puramente indiziario, tipico delle prove atipiche, che a siffatte dichiarazioni competerebbe in astratto). Anche a ritenere tale vizio non decisivo, come fatto dalla corte territoriale, dal Palazzaccio hanno evidenziato che l’acquisizione documentale (come detto, nel caso effettuata invece ritualmente) è pur sempre riconducibile all’esercizio del potere istruttorio d’ufficio, come dalla stessa corte territoriale sottolineato.

“Ora – prosegue il ragionamento della Suprema Corte – a fronte dell’esercizio di tale potere officioso, deve ritenersi doverosa l’ammissione altresì delle prove contrarie ritualmente richieste dalla parte interessata. Infatti, il giudice che abbia esercitato i propri poteri istruttori deve assegnare alle parti un termine per l’eventuale istanza di prova contraria (…) o, a maggior ragione, deve disporre la prova contraria già chiesta dalle parti (sempre che non sia inammissibile, irrilevante o sovrabbondante), il che non è avvenuto”.

La sentenza impugnata non aveva indicato alcuna motivazione circa la mancata ammissione delle prove ritualmente richieste (nell’atto introduttivo, poi nell’appello ed all’esito della CTU) dai ricorrenti. Da lì la decisione di cassare la pronuncia e rinviare la causa alla Corte d’appello per il riesame del caso.

La redazione giuridica

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