Confermata la responsabilità dell’Amministrazione per mobbing e dequalificazione professionale di una dipendente al rientro in servizio dopo l’assenza per maternità

Con la sentenza n. 31742/2021 la Cassazione si è pronunciata sul ricorso proposta da un’Azienda ospedaliera contro la sentenza di merito che la condannava al pagamento di una somma pari a oltre 42 mila euro ritenendo provata la condotta inadempiente dell’amministrazione integrante mobbing e dequalificazione professionale.

Il giudice d’appello aveva condiviso le conclusioni alle quali il Tribunale era pervenuto quanto alla responsabilità dell’azienda, che non aveva salvaguardato la salute psichica della dipendente la quale, rientrata in servizio dopo l’assenza per maternità, era stata denigrata dal personale medico del reparto, sottoposta a forme eccessive di controllo, assegnata allo svolgimento di mansioni che implicavano l’utilizzazione di “macchinari nuovi” senza prima ricevere un’adeguata formazione.

In relazione al nesso causale la Corte territoriale aveva osservato che lo stesso non poteva essere escluso per il solo fatto che la dipendente avesse una “personalità con meccanismi di risposta non del tutto efficaci”, atteso che il problema del concorso delle cause andava affrontato facendo applicazione del principio di equivalenza di cui all’art. 41 cod. pen., applicabile anche nei giudizi di responsabilità civile.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, la parte ricorrente si doleva della violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 cod. civ. in tema di accertamento del nesso causale e, richiamate le considerazioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio in merito alla patologia dalla quale la lavoratrice era già in precedenza affetta, addebitava al giudice d’appello di avere quantificato il danno risarcibile omettendo considerare l’incidenza del quadro patologico preesistente del quale, invece, occorreva tener conto ai fini dell’accertamento del nesso causale e del quantum del risarcimento.

Gli Ermellini, tuttavia, hanno ritenuto la doglianza infondata.

In base alla giurisprudenza di legittimità, infatti, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell’evento del quale costituisce un antecedente causale necessario, l’autore del fatto illecito è da ritenere responsabile, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati; lo stato di salute anteriore della vittima può assumere rilevanza ai fini della quantificazione del risarcimento, nel rispetto del principio della causalità giuridica, solo qualora in epoca antecedente al fatto illecito il danneggiato fosse già affetto da patologia con effetti invalidanti, sui quali si è innestata la condotta antigiuridica, determinando un aggravamento che, in assenza del fattore sopravvenuto, non si sarebbe prodotto; in quest’ultima ipotesi il giudice è tenuto a stimare il danno biologico tenendo conto della patologia pregressa, perché la lesione manifestatasi all’esito dell’azione illecita non è nella sua interezza una conseguenza immediata e diretta di quest’ultima, ma lo è soltanto per la parte che, secondo il giudizio controfattuale, non si sarebbe verificata in assenza della condotta antigiuridica tenuta dal danneggiante; alla preesistenza di una patologia non può, invece, essere assimilato un mero “stato di vulnerabilità”, ossia una “predisposizione” non invalidante in sé, che non esclude né la causalità materiale, per il principio dell’equivalenza delle cause, né quella giuridica, perché il danno risulta comunque conseguenza diretta ed immediata dell’azione illecita.

Nel caso in esame, la Corte territoriale, pur avendo impropriamente utilizzato nella motivazione della sentenza l’espressione “pregresse patologie psichiche”, non si era discostata dai richiamati principi di diritto perché, facendo proprie le conclusioni alle quali il consulente tecnico d’ufficio era pervenuto, aveva accertato che “la patologia depressiva” di cui la lavoratrice soffriva era direttamente dipendente dalla matrice stressante dell’organizzazione, che aveva “pressato una personalità i cui meccanismi di risposta non sono del tutto efficaci”.

La Corte, quindi, con accertamento di fatto non censurabile in Cassazione, aveva riscontrato che nella specie la patologia invalidante, seppure favorita da un fattore predisponente, era insorta solo a seguito della condotta tenuta dal datore di lavoro che aveva agito come concausa dell’evento dannoso e non come mero fattore di aggravamento di una patologia preesistente.

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