Respinto il ricorso di un’azienda condannata per il demansionamento di una lavoratrice alla luce della non equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti

L’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti, che legittima lo jus variandi del datore di lavoro (art. 2103 cod. civ.), “deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto”. E’ il principio ribadito dalla Cassazione con l’ordinanza n. 31342/2021. Gli Ermellini si sono pronunciati sul ricorso proposto da un’azienda contro la condanna al pagamento nei confronti di una lavoratrice di una somma pari a 2/3 delle retribuzioni dovute, con riferimento alla retribuzione globale di fatto, nel periodo (quattro mesi e mezzo), per il quale era stato accertato il demansionamento.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte la società datrice deduceva, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione dell’art.2103 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto sussistente il demansionamento, peraltro senza valutare gli elementi di fatto della qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, del tipo di professionalità colpita, della durata e dell’esito finale della dequalificazione, unitamente alle altre circostanze del caso concreto, e senza considerare che le mansioni assegnate alla lavoratrice erano del tutto equivalenti a quelle da ultimo svolte. L’attrice deduceva, altresì, violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., dolendosi di una non corretta valutazione del compendio probatorio da parte della sentenza impugnata.

Il Supremo Collegio ha ritenuto, tuttavia, di respingere il ricorso, specificando che in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, con la conseguenza che la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito configura “un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1°, n. 5 cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella I. n. 134 del 2012” (Cass. n. 23940/2017); e che “la violazione del precetto di cui all’art.2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc. civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del ‘nuovo’ art. 360 n. 5 cod. proc. civ.)”.

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