Respinto il ricorso di marito e figlia di una paziente morta dopo una biopsia stereotassica effettuata per indagare una lesione espansiva cerebrale multiforme emisferica sinistra

Allorché, nel corso dell’esecuzione di un intervento o dopo la conclusione di esso, si verifichi un peggioramento delle condizioni del paziente, delle due l’una: o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”; ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile, e in tal caso esso integra gli estremi della “causa non imputabile” di cui all’art. 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”. Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza n. 12596/2021 pronunciandosi sul ricorso di marita e figlia di una donna morta in seguito a una biopsia stereotassica alla quale si era sottoposta per indagare una lesione espansiva cerebrale multiforme emisferica sinistra, da cui era affetta. Subito dopo l’operazione era caduta in stato comatoso perdurante; al suo risveglio, aveva riportato una emiparesi facio-branchio-crurale destra con afasia che l’aveva costretta in uno stato di non autosufficienza fino al decesso.

I congiunti, in proprio e nella qualità di eredi della vittima, avevano quindi agito in giudizio nei confronti di medici e struttura per il risarcimento dei danni patiti dalla congiunta, deducendo che l’esecuzione scorretta della biopsia aveva determinato la morte della paziente, nonché la diminuzione e il peggioramento della mediana di sopravvivenza e della qualità della vita della stessa fino al decesso.

I Giudici del merito avevano rigettato la pretesa attrice. La Corte di appello, in particolare, aveva ritenuto insussistente il nesso causale tra l’esame bioptico eseguito e l’evento morte poiché la patologia da cui era affetta la paziente (astrocitoma anaplastico), indipendentemente dalla biopsia eseguita, non avrebbe potuto avere un esito differente rispetto al decesso. Parimenti, la Corte di merito aveva escluso la correlazione causale tra la condotta dei sanitari e il peggioramento delle condizioni di vita della paziente, in quanto la CTU aveva ricondotto la condizione di emi-paresi all’edema acuto cerebrale e al danno ischemico che colpirono la paziente durante l’intervento; tuttavia, tali complicanze – pur possibili nel caso di biopsia diretta e profonda dell’encefalo – non possono essere prevenute ed evitate. Sulla base di tali premesse, la Corte del gravame aveva ritenuto superata la presunzione di colpevolezza ex art. 1218 cod. civ.; infine, in relazione alla dedotta riduzione della mediana di sopravvivenza, sempre sul solco della CTU, aveva rilevato che il tempo di sopravvivenza della vittima era stato compatibile con la media di vita prevista dalla letteratura medica riguardo agli astrocitomi anaplastici.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, i ricorrenti deducevano, tra gli altri motivi, “falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 1218 e 2697 cod. civ. e in generale dei principi regolanti la ripartizione dell’onere della prova in ambito di responsabilità medica di natura contrattuale o da contatto sociale”. In particolare, censuravano la sentenza là dove aveva ritenuto che la condizione di emi-paresi, che aveva colpito la paziente dopo la biopsia, fosse riconducibile a danno ischemico, nonché che quest’ultimo fosse una complicanza possibile della biopsia diretta e profonda dell’encefalo, ma non evitabile. In parte qua, la Corte di merito non avrebbe chiarito perché si trattasse di una complicanza riconducibile a ischemia e non avente altra origine, più probabile; né avrebbe spiegato perché essa fosse inevitabile.

Gli Ermellini hanno però ritenuto infondata la doglianza proposta.

In relazione all’evento morte – hanno sottolineato dal Palazzaccio – il giudice di secondo grado aveva escluso la correlazione eziologica con l’esame bioptico sulla scorta della CTU espletata in prime cure, per cui la patologia di cui era affetta la paziente (astrocitoma anaplastico) non avrebbe avuto un decorso differente rispetto all’exitus.

In relazione al danno da peggioramento delle condizioni di vita della paziente, oggetto dell’impugnazione, la Corte d’Appello aveva motivato come segue: “Con riguardo, invece, all’esistenza del nesso di causalità tra l’esame bioptico e il peggioramento delle condizioni di vita perdurate fino alla data del decesso, ritiene questa Corte – conformemente a quanto già sottolineato dai CTU – che la condizione di emi-paresi che affliggeva la sig.ra xxx dopo la biopsia è riconducibile scientificamente alla condizione di edema acuto cerebrale e danno ischemico che hanno colpito la sig.ra xxx durante la biopsia. Tali condizioni sono definite dai CTU come “complicanze previste nei casi di biopsia diretta e profonda dell’encefalo, ma non possono essere prevenute ed evitate”. Sulla scorta di tali conclusioni aveva ritenuto superata la presunzione di colpevolezza operata dall’art. 1218 c.c. ed esclusa l’esistenza di un nesso eziologico tra l’evento e la biopsia e la condizione di emiparesi, proprio perché la complicanza non è frutto di errore, ma rappresenta un evento possibile e non altrimenti evitabile. In particolare, è stato ritenuto provato, sulla scorta della CTU, non solo che l’intervento corrispondeva a una scelta opportuna in relazione alle condizioni in cui si trovava la paziente, onde poter applicare idonee terapie per il tumore al cervello che la affliggeva, e che la biopsia è stata eseguita in modo conforme alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, ma anche l’imprevedibilità e imprevenibilità in concreto dell’evento, posto che l’ischemia sopravvenuta non aveva avuto una causa emorragica collegata all’intervento, bensì era sopraggiunta nel corso dell’intervento come complicanza.

La sentenza aveva inteso quindi applicare, richiamandola correttamente, la giurisprudenza di legittimità riguardo al tema della “complicanza”.

La Cassazione ha poi aggiunto che, in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore), ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione.

Nel caso in esame, essendo risultati provati entrambi i requisiti (adempimento conforme alle leges artis e inevitabilità e imprevedibilità in concreto dell’evento), con giudizio insindacabile in sede di legittimità in quanto conforme a criteri di logicità e alle conoscenze mediche sino ad oggi acquisite, il ragionamento svolto dalla Corte dì merito risultava del tutto incensurabile.

La redazione giuridica

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