Nega la prestazione ambulatoriale e la paziente, attraverso un esposto, accusa la dottoressa di essere incompetente (Cass. pen., sez. V, dep. 24 maggio 2022, n. 20206).

Nega la prestazione ambulatoriale e la reazione della paziente provoca la querela per diffamazione da parte della Dottoressa accusata di “manifesta inesistente competenza professionale”.

Singolare caso di diffamazione che finisce all’esame della Suprema Corte: per i Giudici le frasi incriminate, contenute in un esposto inviato dalla paziente a diversi esponenti istituzionali del Servizio Sanitario, sono frutto del legittimo esercizio del diritto di critica nei confronti dell’operato del Medico “accusato”.

La vicenda, del tutto particolare, trae origine da un esposto inviato da una donna al Dipartimento per la Salute della Regione Abruzzo, all’assessore regionale della Sanità e al direttore sanitario dell’Azienda sanitaria locale.

La paziente, in sintesi, contesta con veemenza l’operato della Dottoressa che nega la prestazione riabilitativa ambulatoriale, che in precedenza le era stata riconosciuta.

I Giudici di merito di Pescara condannano la donna per diffamazione, con pena fissata in 1.200 euro di multa e connesso obbligo di versare 1.000 euro come risarcimento alla Dottoressa.

La vicenda approda in Cassazione dove l’imputata con il primo motivo deduce la violazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, il travisamento del fatto, la mancanza di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della provocazione; con il secondo motivo deduce il mancato riconoscimento della scriminante del diritto di critica.

In particolare, l’imputata evidenzia, che con l’espressione incriminata “non ha inteso offendere l’onore e il decoro della Dottoressa mediante un attacco personale, ma ha espresso un’opinione relativa al Suo operato professionale nell’ambito di un rapporto conflittuale dovuto al fatto che la Dottoressa nega la prestazione ambulatoriale di trattamenti sanitari  che, invece, fino a quel momento le erano sempre stati garantiti”.

Gli Ermellini rammentano che in tema di diffamazione, l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato.  

Difatti, la nozione di “critica”, quale espressione della libera manifestazione del pensiero rimanda anche e soprattutto all’area della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. I limiti sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 2 Cost., onde non è consentito” – per quanto qui di interesse – trasmodare nella invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.

In definitiva, è necessario contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio – temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere.

Ergo, seguendo tali principi il Giudice è chiamato a verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico e funzionale all’argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti.

Assorbita ogni ulteriore doglianza, la S.C. annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

Avv. Emanuela Foligno

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