Respinto il ricorso di un uomo che si era visto rigettare la corresponsione della rendita di reversibilità in seguito al decesso della moglie, affetta da sindrome mielodispastica conseguente a epatite cronica HCV correlata

In tema di malattia professionale, derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore. Lo ha ribadito la Cassazione con l’ordinanza n. 3909/2020 pronunciandosi sul ricorso di un uomo che si era visto respingere dai Giudici del merito la domanda promossa nei confronti dell’Inail per l’accertamento del nesso causale tra la patologia sofferta dal coniuge, quale conseguenza di infortunio (epatite cronica HCV correlata ad impronta autoimmune) e l’infermità (sindrome mielodispastica) che aveva condotto al decesso della moglie, con conseguente rigetto della domanda di corresponsione della rendita di reversibilità.

La Corte di appello, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva ritenuto, alla luce di una rinnovata consulenza tecnica d’ufficio, non sufficientemente provato il nesso causale tra tecnopatia e decesso del coniuge, non essendo stato accertato un adeguato grado di probabilità a fronte delle conclusione del perito che aveva precisato come “è molto improbabile che siano sussistite concrete correlazioni tra l’infermità conseguenza dell’infortunio e l’infermità che, con successione clinico-patologica, condusse al decesso la signora”.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte il ricorrente deduceva l’omessa esame di un fatto decisivo, discusso tra le parti, consistente nell’accertamento del consulente tecnico d’ufficio secondo cui “è improbabile ma non è possibile escludere una ipotesi di correlazione causale o concausale”.

Gli Ermellini hanno ritenuto il motivo non meritevole di accoglimento.

Dal Palazzaccio hanno specificato che il nesso causale tra l’attività lavorativa e il danno alla salute dev’essere valutato secondo un criterio di rilevante o ragionevole probabilità scientifica.

Le Sezioni Unite della Cassazione, muovendo dalla considerazione che i principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e dalla regolarità causale – salva la differente regola probatoria che in sede penale è quella dell'”oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre in sede civile vale il principio della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” – hanno poi ulteriormente precisato che la regola della “certezza probabilistica” non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (c.d. probabilità quantitativa), ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica).

E’ stato poi evidenziato come, “in tema di accertamento della sussistenza di una malattia professionale non tabellata e del relativo nesso di causalità – posto che la prova, gravante sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in presenza di un notevole grado di probabilità – il giudice può giungere al giudizio di ragionevole probabilità sulla base della consulenza tecnica d’ufficio che ritenga compatibile la malattia non tabellata con la “noxa” professionale utilizzando, a tale scopo, anche dati epidemiologici, per suffragare una qualificata probabilità desunta anche da altri elementi. In tal caso, il dato epidemiologico (che di per sè attiene ad una diversa finalità) può assumere un significato causale, tant’è che la mancata utilizzazione di tale dato da parte del giudice, nonostante la richiesta della difesa corroborata da precise deduzioni del consulente tecnico di parte, è denunciabile per cassazione”.

Nel caso in esame, per la Suprema Corte la sentenza di merito aveva fatto corretta applicazione delle regole che governano la valutazione del nesso di causalità ed il ragionamento logico della “ragionevole probabilità scientifica”, negando di conseguenza la rendita di reversibilità.

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