Omesso versamento Iva: l’imprenditore paga dipendenti e fornitori, assolto

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omesso versamento iva

In tema di omesso versamento Iva, non è illogico ritenere non esigibile la condotta antidoverosa omessa dall’imprenditore che, nella convinzione di assicurare la prosecuzione dell’attività d’impresa scelga di provvedere al pagamento di dipendenti e fornitori

La vicenda

A seguito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Modena condannava l’imputato alla pena di nove mesi di reclusione in relazione al reato di omesso versamento Iva (di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter), ascrittogli per avere, in qualità di legale rappresentante di una società per azioni, omesso di presentare entro il termine stabilito per il versamento dell’acconto d’imposta relativo al periodo successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta per gli anni 2010 e 2011, pari, rispettivamente, a euro 980.347,00 ed euro 728.804

Nel 2018 la Corte d’appello di Bologna ribaltava l’esito del processo, assolvendo l’imputato “perché il fatto non costituisce reato”. Per i giudici della corte territoriale non era certa la volontà dell’imputato di omettere la condotta doverosa.

Il ricorso per Cassazione

Contro tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Bologna, affidato a un unico motivo, mediante il quale ha sottolineato – richiamando la sentenza delle Sezioni Unite Corte n. 37424 del 2013 -, la sufficienza del dolo generico per poter ritenere integrato il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter contestato all’imputato, cioè la consapevolezza di omettere un versamento d’imposta di cui sia abbia la consapevolezza della debenza, e la mancata individuazione di cause di giustificazione idonee a scriminare la condotta illecita o di cause di esclusione della colpevolezza, richiamando al riguardo, la sentenza n. 6220 del 2018 di questa stessa Sezione.

La Corte territoriale era pervenuta alla assoluzione dell’imputato ritenendo non esigibile la condotta antidoverosa omessa, sulla base:

1) del rilievo che i soci di controllo della società capogruppo avessero adottato le iniziative idonee a tentare di fronteggiare la crisi finanziaria che aveva, tra le altre, colpito la società amministrata dall’imputato, facendo ricorso anche a beni personali allo scopo di reperire la liquidità necessaria per assolvere alle obbligazioni sociali, e 2) dell’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, in quanto la scelta dell’imputato di provvedere al pagamento di dipendenti e fornitori era avvenuta in una prospettiva di continuità aziendale, nella convinzione che tale opzione avrebbe consentito la prosecuzione dell’attività d’impresa, il conseguimento di ricavi e la produzione utili e, quindi, anche l’adempimento alla scadenza della obbligazione tributaria, con la conseguente insussistenza della rappresentazione da parte dell’imputato medesimo, della mancanza delle risorse necessarie per assolvere a tale adempimento fiscale.

Si tratta di considerazioni che a giudizio degli Ermellini sono lo sviluppo “non illogico” di principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità.

Per tali motivi, il ricorso del procuratore generale è stato rigettato perché inammissibile.

La redazione giuridica

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