Sconosciuta la causa della caduta dal balcone della casa di riposo, suicidio o malore, non sono stati dimostrati i profili del nesso causale e della colpa (Cassazione civile, sez. III, 08/07/2024, n.18531).
La vicenda
I congiunti della donna ricoverata in Casa di Riposo, e deceduta a causa della caduta dal balcone della stanza posta al secondo piano della casa di riposo dov’era alloggiata, addebitano l’esposizione della donna (affetta da disturbi mentali) a pericoli per essere stata collocata in un piano rialzato, con balcone agevolmente accessibile e scavalcabile, in violazione dei principi cautelari.
Il Tribunale rigetta la domanda con pronuncia confermata dalla Corte di appello.
Le motivazione dei giudici di Appello
Per i giudici di Appello:
a) neppure parte attrice aveva conclusivamente assunto che la caduta mortale fosse stata dovuta a suicidio e non a un malore.
b) Muovendo dall’ipotesi del suicidio, la responsabilità ipotizzabile a carico della casa di riposo avrebbe potuto essere solo aquiliana, non essendo configurabile alcun obbligo di protezione, derivante dal contratto, in favore dei parenti attori iure proprio.
c) Non erano stati comunque dimostrati i profili del nesso causale e della colpa, in quanto, secondo la CTU “la paziente, sempre collaborativa, seppure affetta da sintomatologia dementigena, poteva essere trasferita, come accaduto dopo un mese dal suo arrivo e i controlli cui era stata sottoposta, al reparto per soggetti autosufficienti, non essendo emersa una modificazione psicopatologica del compenso riguardante il disturbo dell’umore, né un’evidenza di ideazioni o desideri anticonservativi, e non erano risultati altri elementi nel senso di possibili modificazioni comportamentali.
In specie, non si erano palesati, in data successiva al trasferimento, segnali di allarme, come dimostrato dall’esito dei due colloqui psicologici intercorsi con il personale medico il 28 aprile 2015 e il 6 giugno 2015, nonché dalla visita psichiatrica tempestivamente effettuata il 20 marzo 2015, solo tre giorni dopo la sistemazione della paziente nel nuovo reparto, tenendo conto, al contempo, della risalenza all’anno 2009 dell’ultimo tentativo di suicidio”.
e) In altri termini, non essendovi stato alcun deterioramento del quadro clinico degenerativo, tale da rendere opportuna una diversa collocazione della paziente, doveva concludersi nel senso che il decesso era riferibile, in tesi, a un comportamento impulsivo imprevedibile e non contrastabile dai sanitari.
Il ricorso in Cassazione
I familiari della vittima si spingono in Cassazione e lamentano che la Corte non si sarebbe pronunciata sulla repentina dimissione in assenza di adeguata diagnosi. Sulla mancanza di documentazione medica sullo stato di salute psicofisica della paziente oltre alla diagnosi d’ingresso, di sindrome psicotica, eccezion fatta per la labile traccia di due colloqui psicologici e una risalente visita psichiatrica. Alla deduzione per cui un’ospite psicotica da oltre un decennio, con reiterati ricoveri psichiatrici e gesti inconsulti anche recenti, rendeva prevedibile l’evento, senza che potesse ostare un compenso dei disturbi psicotici e dell’umore affermato dal perito d’ufficio apoditticamente; alla mancanza di spiegazione in ordine, appunto, all’asserito compenso, privo di ogni documentazione specialistica a supporto. Alla mancanza di motivazione sulla deduzione relativa alla carenza di presidi strutturali di sicurezza quanto al balcone della stanza, che la Casa di Cura avrebbe dovuto cautelativamente predisporre.
Il giudizio di rigetto della Suprema Corte
La Corte territoriale, innanzitutto, si è pronunciata in maniera corretta e intellegibile, in particolare statuendo che:
a) non vi era stata prova che si fosse trattato di suicidio, ragione decisoria comunque non specificatamente impugnata se non diffusamente sollecitando un nuovo apprezzamento degli atti di giudizio. Nel ricorso viene scritto “la Polizia rilevava che al momento del decesso (la vittima) alloggiava da sola al piano secondo… All’accesso in stanza notavano che la porta del balcone era aperta, sul balcone due sedie poste vicino al parapetto, rilevavano che non vi era “alcun biglietto con cui la donna giustificasse il compimento del gesto anticonservativo posto in essere” e nel complessivo gravame si dà diffusamente per scontato il gesto stesso.
b) Non vi era stata prova della sussistenza del nesso causale, né della colpa poiché dalla CTU era risultato che “la paziente, reiteratamente collaborativa, seppure affetta da sintomatologia dementigena, poteva essere trasferita, com’era accaduto dopo un mese dal suo arrivo e i riscontrati controlli cui era stata sottoposta, al reparto per soggetti autosufficienti, non essendo emersa una modificazione psicopatologica del compenso del disturbo dell’umore né un’evidenza di ideazioni o desideri anticonservativi, né diversi elementi che deponessero nel senso di plausibili modificazioni comportamentali”.
Le risultanze della consulenza svolta nel giudizio di ATP
Per quanto concerne, invece, le risultanze della consulenza svolta nel giudizio di ATP, ed asseritamente non tenute in considerazione, secondo i Giudici di appello, le conclusioni dell’ATP, non potevano avere la stessa, ovvero prevalente, incidenza sul convincimento rispetto sia alla consulenza svolta in sede penale, sia alla consulenza svolta in primo grado, restando in ogni caso dirimente la mancanza di prova sul fatto che si fosse trattato di suicidio e non, ad esempio, di un malore.
Anche questa censura non è fondata perché le risultanze dell’ATP reiterano sostanzialmente l’impostazione della difesa ricorrente, risolvendosi, pertanto, il loro apprezzamento, in un inammissibile tentativo di rilettura istruttoria.
La doppia decisione conforme dei Giudici di merito
Venendo ora alla deduzione di omesso esame lamentata, essa è inibita dalla doppia decisione conforme dei Giudici di merito.
Ad ogni modo, sottolineano gli Ermellini, la Corte di merito ha escluso che vi fosse prova del suicidio. Ha affermato coerentemente che vi erano state una visita psichiatrica – con la quale si era attestato un compenso sintomatologico significativo rispetto al quale non potrebbe logicamente incidere la differenza con una definizione di compenso patologico – e due colloqui psicologici, a testimonianza di un vaglio medico specialistico, che avevano plausibilmente legittimato lo spostamento della paziente in un reparto per autosufficienti, e come tale diversamente attrezzato sul piano logistico. Tutto ciò depone a ritenere come adempiuto l’obbligo di sorveglianza per quanto in concreto necessario ed esigibile, in assenza di elementi di evoluzione clinica opposta, tenuta altresì in conto la distanza temporale significativa dal tentativo di gesto autolesionistico del 2009.
In conclusione la Cassazione respinge il ricorso viene respinto e ribadisce anche in questa decisione che il Giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove, o risultanze di prova, che ritiene più attendibili.
Avv. Emanuela Foligno