Il professionista è stato condannato dalla Corte dei Conti a versare all’Azienda ospedaliera di appartenenza 140mila euro che erano stati pagati, a titolo di risarcimento, a una paziente che aveva subito la perdita del feto

La sezione calabrese della Corte dei conti, con la sentenza 368/2019, ha condannato un medico al rimborso di 140.000 euro, oltre interessi e spese legali, nei confronti dell’azienda ospedaliera presso cui prestava servizio. Quest’ultima si era rivalsa sul camice bianco dopo aver risarcito una paziente per la perdita del feto e la rimozione dell’utero.

La donna, giunta alla trentatreesima settimana di gravidanza, si era recata presso il Pronto Soccorso della struttura nosocomiale con persistenti dolori pelvici interno alle 7 del mattino. Era stata ricoverata  presso l’Unità Operativa di Ginecologia e Ostetricia e presa in carico dal dirigente medico di turno, con la diagnosi di “minaccia di parto prematuro”.

Alle 08,10 era stata sottoposta a consulenza ginecologica specialistica che confermava la diagnosi di ingresso. Il medico, quindi, aveva richiesto analisi urgenti, anche in considerazione del fatto che era un giorno festivo.

Il parto cesareo e la conseguente asportazione oltre che del feto deceduto dell’utero era avvenuta intorno alle 14,55.

E solo dopo che era stata segnalata una sospetta “HELLP” (Hemolysis, elevated liver enzyme levels and low platelets), ovvero una sindrome caratterizzata dal ricorrere, in via alternativa o cumulativa, di emolisi, aumento degli enzimi epatici e riduzione del numero di piastrine circolanti o trombocitropenia.

La difesa ha sostenuto che il ritardo e le relative conseguenze fossero dovute alla disorganizzazione della struttura e che comunque, sulla base della legge 24/2017, il medico non sarebbe stato avvisato dell’instaurazione del giudizio.

Ma la Corte dei conti non ha ritenuto di aderire a tali argomentazioni.

Con riferimento alla Legge Gelli in materia di responsabilità professionale, i giudici hanno sottolineato come i fatti fossero antecedenti alla sua entrata in vigore e pertanto la richiesta risultava inaccettabile.

In relazione ai fatti di causa, invece, i magistrati hanno ravvisato diversi profili di negligenza, imprudenza e/o imperizia nell’operato del professionista.

In particolare,  il medico “a fronte di una diagnosi di ingresso di ‘minaccia di parto prematuro’, non avrebbe ordinato l’esecuzione immediata di una ecografia ostetrica approfondita, ma si sarebbe adoperato in tal senso soltanto alle ore 13,00, dopo aver preso visione dei valori ematici; in secondo luogo, pur avendo ordinato l’esame emocromocitometrico, definendolo “urgente”, non ne avrebbe sollecitato l’esecuzione, sicché il referto delle analisi, inviato alle 10:15, sarebbe stato esaminato soltanto alle 13,00; infine, a fronte di una sospetta “HELLP”, non avrebbe proceduto all’esecuzione immediata del taglio cesareo, ma avrebbe atteso l’arrivo del primario”.

Inoltre, sempre secondo l’ipotesi accusatoria “il ritardo nell’esecuzione dell’ecografia e degli esami emocromocitometrici avrebbe impedito di diagnosticare tempestivamente la sindrome ‘HELLP’, che avrebbe a sua volta causato il distacco della placenta, la morte del feto e l’infarcimento dell’utero, con la conseguente necessità di procedere all’isterectomia totale”.

E anche la condotta successiva dimostrerebbe come, in realtà, la gravità della situazione fosse stata sottovalutata fin dall’inizio.

“A seguito della lettura delle analisi –  si legge nella sentenza – il medico ha temuto che ricorresse una sindrome HELLP, com’è confermato dalla scheda di consenso informato sottoscritta dalla paziente e controfirmata da lui stesso. Nonostante il sospetto che ricorresse una sindrome di estrema gravità come l’HELLP, ha ingiustificatamente ritardato nel procedere all’esecuzione del parto cesareo, procrastinandolo per quasi due ore”.

I giudici contestano poi al camice bianco di aver “pesantemente sottovalutato la gravità della situazione e la necessità di intervenire con estrema urgenza”. Il dottore avrebbe preferito rinviare l’intervento non in attesa della stabilizzazione della paziente e dell’arrivo del plasma congelato, ma perché riteneva che non vi fosse alcuna ragione per adoperarsi prima dell’arrivo del primario.

In conclusione per la Corte dei conti, la condotta del medico avrebbe assunto efficacia determinante nella produzione dell’evento dannoso.

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