Perforazione dell’utero a seguito di raschiamento (Cassazione civile, sez. VI, 20/09/2022, 20/09/2022, n.27444).

Perforazione dell’utero e lacerazione del retto in regione anteriore.

Viene impugnata per Cassazione la decisione della Corte di Appello di Roma che – rigettandone il gravame esperito, in via di principalità, avverso la sentenza del 20 novembre 2015 del Tribunale di Frosinone – ha confermato la condanna, in solido, del Medico e dell’Azienda Sanitaria Locale a risarcire il danno cagionato alla paziente nella misura omnicomprensiva di Euro 116.284,00, già determinata dal primo Giudice;

La paziente conveniva a giudizio l’ASL e il Medico lamentando di avere subito – all’esito di intervento di raschiamento una perforazione dell’utero e la lacerazione della parte rettale in regione anteriore.

Il primo Giudice riconosceva la responsabilità dei convenuti, condannandoli a risarcire il danno all’attrice nella misura omnicomprensiva di Euro 116.284,00.

La paziente propone gravame contestando il quantum, per non essersi il primo Giudice espresso sull’autonoma domanda di risarcimento del danno da infertilità, “inteso come danno morale, di relazione ed esistenziale espressamente avanzata nell’atto di citazione”, tuttavia la Corte d’appello rigettava le doglianze.

La vicenda approda in Cassazione per  “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.”, per “travisamento delle informazioni probatorie”, nonché per “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti”, oltre che per “violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., e art. 111 Cost.”.

Si censura che la Corte d’appello abbia attribuito alla CTU valutazioni sulle conseguenze e sull’incidenza dell’evento lesivo del tutto inesistenti, oltre che per aver omesso di valutare gli elementi di prova acquisiti in causa in ordine alle singole voci di danno risarcibili.

Il Giudice d’appello argomentava che “contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il CTU a seguito dei chiarimenti richiesti ha espresso il convincimento che per quando riguarda la imperita perforazione dell’utero “il danno e la condizione di pregiudizio e sofferenza della donna, si può ritenere congrua la valutazione del 22 % anche per quanto riguarda la infertilità e tutti i danni connessi””.

La paziente deduce che nella relazione di CTU  si legge che il danno biologico permanente patito dall’allora attrice “è complessivamente stimabile nel 22%”, precisandosi che in tale percentuale “vanno ricomprese le sequele prettamente biologiche correlate all’infertilità e rappresentante anche dall’inevitabile riflesso psichico a questa correlato”, restando, invece, “fuori da tale ambito le alterazioni soggettive e peculiari arrecate alla qualità della vita della persona dalla mancata genitorialità”.

Le censure sono inammissibili e infondate.

La violazione del principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, è ipotizzabile solo quando “il Giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime”.

A prescindere, dall’effettiva possibilità  di ipotizzare il vizio di travisamento della prova anche in relazione alla CTU, giacché essa, anche quando ha natura “percipiente”, come tipicamente avviene nei giudizi di responsabilità medica, “non costituisce mezzo di prova”, dirimente è il rilievo per cui, nel caso di specie, opera la preclusione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c.;

E’ preclusa, in caso di c.d. “doppia conforme di merito”, la proposizione di motivi di ricorso per cassazione formulati non solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ma anche dell’art. 115 c.p.c., denunciando la presenza di un “errore di percezione attinente alla ricognizione del contenuto oggettivo della prova”.

Un residuo controllo in sede di legittimità poteva essere ammesso sotto il vigore del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (cioè quello anteriore alle modifiche apportate dall’art. 54, comma 1, lett. b, del D.L. n. 22 giugno 2012, n. 83), “qualora il travisamento delle prove avesse messo capo ad un vizio logico di insufficienza di motivazione”, atteso che anche tale evenienza era idonea ad integrare il vizio motivazionale censurabile in legittimità.

Nello specifico,  il preteso difetto di motivazione è dedotto con riferimento al contenuto della CTU, e quindi fuori dei limiti entro cui ne è consentita la denuncia;

Pacifica la diversa (e non più discutibile) ontologia del danno morale rispetto a quello biologico, nonché la sua attinenza ad un bene immateriale, qual è quello della dignità della persona, viene osservato che la Corte romana,  al pari del Giudice di prime cure, non abbia affatto omesso di dare rilievo alla sofferenza interiore patita dalla donna in ragione dell’infertilità conseguente all’episodio di malpractice sanitaria di cui è risultata vittima per la perforazione dell’utero.

Nella liquidazione del danno entrambi i Giudici di merito hanno recepito le conclusioni raggiunte dal CTU, il quale, nel valutare nel 22 % il postumo di invalidità permanente delle lesioni subite dalla paziente, ha tenuto conto “anche dall’inevitabile riflesso psichico a questa correlato”.

Non sono rimaste prive di ristoro “le alterazioni soggettive e peculiari arrecate alla qualità della vita della paziente dalla mancata genitorialità provocata dalla perforazione dell’utero.

Tali pregiudizi  sono stati considerati e ristorati attraverso la massima personalizzazione del danno operata già in primo grado.

La personalizzazione applicata è del tutto adeguata alle circostanze del caso concreto, ivi compresa la perdita della “potentia generandi”.

Il ricorso viene rigettato.

Avv. Emanuela Foligno

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