Rimane paralizzato per due anni a seguito di innesto di osso e placca in titanio e poi muore. Ancora una volta i Giudici di merito si perdono nella “percentuale di probabilità”.
Una cosa è la probabilità del nesso causale, altra quella del danno: l’una non va confusa con l’altra.
I fatti
Il paziente veniva ricoverato all’Ospedale Garibaldi di Catania dove gli veniva riscontrata una contusione del rachide cervicale e dell’avambraccio destro, nonché contusione della mano sinistra. Lo stesso giorno veniva dimesso senza alcuna prescrizione sanitaria da seguire.
La situazione si aggravava e lo stesso si recava all’Istituto Ortopedico di Augusta dove, a seguito di risonanza magnetica, emergeva frattura alle vertebre con compressione midollare. A questa si è cercato di porre rimedio attraverso un intervento chirurgico di innesto di osso e placca in titanio, che purtroppo non ha sortito alcun effetto. Infatti il paziente, che nel frattempo è andato in insufficienza respiratoria, è rimasto paralizzato al letto per i successivi due anni, fino alla sua morte avvenuta il 5 settembre del 2004.
Viene chiamato in causa l’Ospedale di Catania ritenuto dai familiari della vittima responsabile della paralisi e del decesso avendo i medici del primo intervento non diagnosticato la frattura vertebrale.
La vicenda giudiziaria
Il Tribunale di Catania ha accolto la domanda risarcitoria. La Corte di Appello, invece, previa rinnovazione della CTU medico-legale, ha rigettato la domanda inizialmente formulata dai congiunti che si rivolgono alla Corte di Cassazione.
I Giudici di appello hanno preso atto dei risultati della CTU, dalla quale è emerso che questo tipo di fratture richiede un intervento abbastanza tempestivo, che deve tendenzialmente effettuarsi nelle 24 ore e che, nel caso specifico, non si è avuto, poiché, a causa delle dimissioni iniziali e del successivo ricovero il giorno seguente, quel lasso di tempo è inutilmente trascorso.
Tuttavia, sulla scorta di quanto affermato dai Consulenti chiamati a chiarimenti, la condotta alternativa lecita non avrebbe comunque portato a risultati utili. Ossia se anche l’intervento fosse stato effettuato nelle ventiquattrore ci sarebbe stato circa il 19% delle probabilità di guarigione e dunque il ritardo nell’intervento non può considerarsi come la causa più probabile del danno che, invece, secondo quanto stabilito dai CTU, era da ricercarsi nelle pregresse condizioni di salute del paziente.
Questo ragionamento viene censurato dai familiari della vittima.
Il risarcimento iure hereditatis
Essi osservano che, sin dal primo grado, avevano richiesto il risarcimento non solo del danno iure proprio conseguente alla sofferenza e poi alla morte del congiunto, ma altresì del danno iure hereditatis. Vale a dire del danno biologico subito dal congiunto per i due anni di sofferenza provocati dal ritardo nella diagnosi, il cui diritto al risarcimento, alla morte del congiunto, si è trasferito agli eredi. I congiunti hanno anche fatto presente che questo danno era stato riconosciuto in primo grado e che la relativa pronuncia era stata oggetto di appello della controparte, la quale aveva invece lamentato una mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato nella decisione di primo grado: motivo di appello a cui i ricorrenti avevano replicato.
Conseguentemente, la questione del risarcimento del danno iure hereditatis era una questione dibattuta in appello, oggetto di un motivo di impugnazione, da un lato, e di eccezione difensiva dall’altro, e che non ha invece trovato attenzione da parte dei giudici del secondo grado.
In sostanza la tesi difensiva dei congiunti è la seguente: i Giudici di appello, pur avendo preso atto che il nesso di causalità materiale si accerta con la regola del “più probabile che non”, ossia verificando quale tra le spiegazioni causali è dotata di una maggiore probabilità, hanno tuttavia in concreto disatteso questa regola poiché hanno escluso che il ritardo nella diagnosi e nell’intervento possa essere stato con probabilità la causa del danno, in quanto tale probabilità era indicata dal CTU in una percentuale di poco meno del 20%. Così facendo i giudici però avrebbero violato la regola del “più probabile che non”, la quale non pretende che l’evento sia spiegato con certezza o con probabilità assoluta ma con probabilità prevalente, così come era nelle conclusioni del CTU.
Tutte le osservazioni sono fondate (Cassazione civile, sez. III, 26/09/2024, n.25800)
Risulta che il CTU aveva ritenuto come altamente probabile che si potessero evitare danni al paziente se si fosse intervenuti tempestivamente, ed anzi espressamente il CTU ritiene che l’esecuzione di una TAC precoce avrebbe permesso di intervenire chirurgicamente entro le 24 ore fornendo con maggiore probabilità un maggior recupero neurologico, dov’è chiaramente detto che l’intervento entro 24 ore aveva una maggiore probabilità, rispetto ovviamente al non intervento, di un recupero neurologico del paziente.
Ebbene, una cosa è la probabilità del nesso causale, altra quella del danno: l’una non va confusa con l’altra.
La Cassazione osserva che se un paziente riporta un danno, ad esempio di 100, e si accerta, magari per via di una consulenza tecnica, che se il medico avesse agito diversamente il danno sicuramente sarebbe stato di 80, va da sé che qui il nesso causale è certo, e che la percentuale è solo riferita al danno evitabile. Nel caso che stiamo esaminando, il CTU ha ritenuto altamente probabile che la chirurgia precoce riducesse il danno maggiormente di quella tardiva: “la chirurgia precoce (>24 ore) induce un miglioramento neurologico di almeno 2 classi ASIA … percentualmente più alto rispetto alla chirurgia tardiva, rispettivamente 19,8% contro 8,8%”.
Qui il CTU ritiene sussistente il nesso di causa tra chirurgia precoce e riduzione del danno come altamente probabile: dunque il nesso di causa è affermato come altamente probabile, ciò che invece varia è la percentuale di tale riduzione.
La percentuale del 19,8% non è riferita al nesso di causa, non sta a significare che nel 19,8% dei casi se si agisce entro le 24 ore si riduce il danno. Sta a significare che il danno è ridotto, quasi sempre (dunque con frequenza causale altissima) del 19,8%, mentre nel caso di chirurgia tardiva, quasi sempre, invece, il danno è ridotto del solo 8%.
La Corte di Appello ha confuso la probabilità del nesso di causa con la percentuale di riduzione del danno
Chiaramente i Giudici di merito, che hanno affidato il loro giudizio a quella percentuale, ossia che hanno ritenuto non provato il nesso di causa, perché secondo loro il CTU aveva ritenuto probabile quel nesso al solo 19,8%, hanno confuso la probabilità del nesso di causa con la percentuale di riduzione del danno.
Il nesso di causa è stabilito dal CTU con elevata probabilità in entrambi i casi: egli sostiene che in caso di intervento precoce è altamente probabile una riduzione dei danni del 19.8%, mentre in caso di intervento tardivo è altamente probabile una riduzione del solo 8%. Queste percentuali non indicano la probabilità del nesso causale, ma la percentuale di riduzione del danno nell’uno o nell’altro caso.
Così facendo, i Giudici di appello hanno erroneamente applicato i principi giuridici di causalità e di danno: difatti hanno confuso la probabilità che una condotta riduca il danno con la percentuale di quella riduzione.
Ricorso accolto e sentenza cassata con rinvio.
Avv. Emanuela Foligno