Confermata la condanna di una donna, non iscritta all’albo degli psicologi né a quello dei medici, che eccepiva di non praticare la psicoterapia ma la psicoanalisi

Costituisce esercizio abusivo di una professione la commissione da parte di un soggetto non in possesso dei requisiti professionali dell’attività riservata in via esclusiva ad esperti ai quali la legge ha riconosciuto la possibilità di svolgerla per le particolari competenze professionali possedute. Lo ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 13556/2020, pronunciandosi sul ricorso presentato da un donna condannata, in sede di merito a quattro mesi di reclusione per aver esercitato abusivamente la professione di psicoterapeuta senza avere mai conseguito il diploma di laurea e la specializzazione in psicoterapia e senza essere iscritta né all’albo dell’Ordine dei medici, né a quello degli psicologi.

La pronuncia di primo grado si era basata, in particolare, sulla denuncia di un medico il quale riferiva che l’imputata  aveva effettuato “la psicoterapia” sulla di lui figlia minore, in relazione a problematiche familiari che erano insorte.

Nello specifico, la donna aveva chiamato il medico al telefono comunicandogli che avrebbe intrapreso la “psicoanalisi freudiana” con incontri settimanali. Il padre della minore, però, accorgendosi che la piccola non traeva alcun miglioramento dalla asserita “terapia psicologica” aveva compiuto delle indagini, accertando che la sedicente psicologa esercitava abusivamente “psicoterapia”, addirittura interagendo con i componenti del Tribunale per i Minorenni.

La donna era titolare di partita IVA come “assistente sociale non residenziale” e non era iscritta ad alcun albo professionale; risultava invece laureata in lettere e filosofia ed effettuava “l’analisi freudiana” attraverso il metodo del colloquio e dell’ascolto. Aveva conseguito un diploma biennale ad indirizzo “handicap psicofisici della vista e dell’udito”.

Nel ricorrere per cassazione l’impugnante eccepiva, tra gli altri motivi, di non avere mai speso il titolo di psicoterapeuta ma di psicoanalista e di non praticare terapia ma analisi.

La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto di non aderire alle argomentazioni dell’imputata, respingendone il ricorso. Secondo i Giudici Ermellini, l’assunto difensivo dissente da quanto sostenuto dal Tribunale e dalla Corte di appello secondo cui “l’analisi costituisce pur sempre una terapia”, in linea con gli orientamenti espressi al riguardo dalla stessa Cassazione.

In base alla giurisprudenza di legittimità, ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p., l’esercizio dell’attività di psicoterapeuta è subordinato ad una specifica formazione professionale della durata almeno quadriennale ed all’inserimento negli albi degli psicologi o dei medici (all’interno dei quali è dedicato un settore speciale per gli psicoterapeuti).

Ciò posto, “la psicanalisi”, quale riferibile alla condotta della ricorrente, va intesa come “psicoterapia”, caratterizzata da un percorso, che è anche terapeutico e volto a procurare la guarigione da talune patologie, non potendosi formulare valutazioni meramente astratte, ma dovendosi valorizzare gli elementi dai quali i giudici di merito hanno in concreto dedotto il tipo trattamento in concreto somministrato dalla ricorrente. In tale prospettiva, dunque, sarebbe stata necessaria quell’abilitazione di cui la ricorrente era comprovatamente sprovvista.

La redazione giuridica

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