È legittima, in quanto non viola il divieto della reformatio in peius, l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello delle pene accessorie non applicate in primo grado

La vicenda

La Corte d’appello di Roma aveva confermato la condanna pronunciata, in primo grado, a carico dell’imputato per il reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 perché, al fine di evadere l’imposta, aveva annotato e indicato nella dichiarazione dei redditi, fatture per operazioni inesistenti emesse dalla società, di cui era legale rappresentante.

Contro tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, chiedendone l’annullamento.

Tra gli altri motivi, il ricorrente si doleva del fatto che la corte territoriale, con la sentenza impugnata, fosse pervenuta ad una reformatio in peius della decisione pronunciata in primo grado. Ed invero, i giudici dell’appello avevano per la prima volta applicato le sanzioni accessorie previste dall’art. 12 del citato decreto legislativo, senza che vi fosse stata impugnazione del pubblico ministero.

Inoltre, secondo le prospettazioni difensive, la corte d’appello aveva altresì, violato il principio secondo cui, in tema di reati tributari le pene accessorie comminate attraverso la previsione di un limite minimo e di un limite massimo di durata, rientrano tra quelle di durata non espressamente determinata dalla legge, ed andrebbero quindi parametrate ai sensi dell’art. 37 c.p., alla durata della pena principale inflitta all’imputato. Al contrario, la corte d’appello capitolina, nell’applicare la sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche, si era discostata dal minimo edittale previsto per legge, a differenza di quanto fatto per la pena detentiva.

Il giudizio della Cassazione

Ma l’argomento non ha convinto i giudici della Suprema Corte di Cassazione (Terza Sezione Penale n. 36407/2019), i quali dopo aver confermato la fondatezza della decisione impugnata in ordine all’accertamento della penale responsabilità dell’imputato hanno dichiarato, manifestamente infondata la doglianza con la quale la difesa aveva contestato la violazione di legge in ordine alla applicazione delle sanzioni accessorie.

La giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che la previsione di cui all’art. 597, comma 3 c.p. – che sancisce il divieto della reformatio in peius quando appellante sia il solo imputato – non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, le pene accessorie che, ex art. 20 c.p., conseguono di diritto, alla condanna come effetti penali di essa. È pertanto legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello delle pene accessorie non applicate in primo grado.

Neppure è stata accolta la tesi relativa al quantum della misura applicata.

Al riguardo, i giudici della Terza Sezione Penale della Cassazione hanno affermato che il principio secondo cui la durata delle pene accessorie temporanee previste dall’art. 12 del d.lgs n. 74/2000, conseguenti alla condanna per reati tributari, deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta, implica che la pena principale e quella accessoria devono avere la stessa durata e non certamente che la pena accessoria debba applicarsi secondo il quantum edittale scelto per la pena principale. In altri termini, non è vero che se la pena principale viene applicata nel minimo edittale anche la pena accessoria deve essere riconosciuta nella sua minima estensione. Ciò che rileva è che la durata concretamente determinata sia la medesima.

La redazione giuridica

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