Il paziente si allontana dall’ospedale e si toglie la vita nel giardino adiacente la struttura. La Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema del nesso causale nella responsabilità per omissione (Corte di Cassazione, IV penale, sentenza 31 gennaio 2025, n. 4162).
Il fatto
La vittima, caporeparto di un’azienda manifatturiera, sposato e con un figlio piccolo, evidenziava nei mesi precedenti ai fatti problemi psicologici legati allo stress lavorativo e familiare che lo avevano condotto a fare uso di cocaina. Nonostante fosse seguito dal SERT, attuava in più occasioni atti autolesionistici in cui veniva fermato dalla moglie, dalla madre o dalla sorella. Su proposta della Psichiatra del Sert di Lugo e con il supporto dei familiari, l’uomo accettava di intraprendere un percorso terapeutico residenziale presso la struttura “Parco dei Tigli” di Padova.
In occasione del secondo intervento del 118 richiesto dalla moglie e dalla madre, veniva condotto al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Lugo dove il medico di turno disponeva analisi di laboratorio ed indagini radiologiche del torace con rilievo di positività alla cocaina ed alle benzodiazepine e richiedeva una consulenza psichiatrica.
Alle ore 17.30 la Psichiatra imputata, coadiuvata dall’infermiera, iniziava un colloquio con l’uomo durante il quale lo stesso, molto agitato, veniva lasciato libero di muoversi dentro e fuori dall’ambulatorio e, di fatto, più volte usciva dalla stanza per recarsi nel corridoio, nelle stanze di attesa contigue e per andare a fumare.
La richiesta del TSO
L’uomo minacciava di uccidersi se non lo avessero lasciato libero e si rifiutava di sottoporsi a un intervento volontario in reparto. Quindi i due sanitari predisponevano la richiesta per un TSO. Nel corso dell’espletamento della procedura, e in attesa che pervenisse l’ordinanza del Sindaco di conferma e giungessero le Forze dell’ordine, l’uomo chiedeva più volte di essere sedato finché si allontanava rendendosi irreperibile, nonostante la moglie lo avesse seguito poco dopo la sua uscita dall’ambulatorio. Le immediate ricerche non davano esito finché il 30/7/2016 si rinveniva il cadavere dell’uomo che si era tolto la vita impiccandosi proprio all’esterno dell’ospedale.
Le cause del decesso venivano ricondotte ad “asfissia meccanica acuta da impiccamento di verosimile natura suicidiaria” risalente a circa sei/sette giorni prima, dunque collocabile proprio dopo l’allontanamento dalla struttura.
La vicenda giudiziaria
Il Tribunale ha ritenuto provata la penale responsabilità per omissione delle imputate alla luce dei certificati medici, delle cartelle cliniche e degli atti della cartella Audit nonché delle dichiarazioni testimoniali della moglie della madre e della sorella della vittima, nonché sulla scorta dell’esame delle imputate e delle Consulenze Tecniche disposte.
Ciò che viene contestato alle imputate è la omissione della necessaria somministrazione di farmaci e della sorveglianza del paziente, reati di cui agli artt. 113 e 589 cod. pen. Infatti durante l’attesa del TSO non era stata attivata alcuna terapia ansiolitica e la Psichiatra non aveva impartito alcuna istruzione sulla vigilanza del paziente. Quindi sia Psichiatra che infermiera erano state condannate, previa concessione ad entrambe delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione con pena sospesa oltre che al risarcimento dei danni in favore della parte civile da liquidarsi in separata sede ed al pagamento di una provvisionale di Euro 50.000 per ciascuna.
In secondo grado, il Giudice d’appello ha fatto proprie le motivazioni della sentenza di primo grado ritenendo la sussistenza del nesso causale fra la condotta colposa delle imputate ed il decesso dell’uomo.
Il vaglio della Corte di Cassazione
Le due imputate lamentano illogicità interna della decisione laddove giunge a delle conclusioni in ordine allo stato dei luoghi, ed alla mancanza di un contatto visivo tra le imputate ed il paziente, in difetto degli accertamenti presupposti. Sottolineano, inoltre, che non sussiste alcun potere coercitivo in capo ad esse e che la ricostruzione del nesso causale svolta pare orientata dai criteri civilistici e non penalistici.
Sul punto, i Giudici di appello hanno precisato che, a fronte della fuga del paziente, la dott.ssa avrebbe dovuto intervenire coercitivamente, vedendosi tutelata dal disposto di cui all’art. 54 cod. pen.
Sottolineando, altresì, la valenza del concetto di sorveglianza e di vigilanza del paziente nella procedura di attuazione del TSO. La vigilanza era anche il termine ripreso nei protocolli relativi al TSO dell’Ausl Romagna. Questo significa che non vi era un margine per ipotizzare l’applicazione dell’art. 54 cod. pen.
Infatti l’intervento della Psichiatra e la decisione di procedere al TSO scaturivano non già dalla valutazione di uno specifico rischio suicidiario, ma da una complessa situazione clinica che vedeva l’alternarsi nel paziente di stati di intossicazione e sintomi astinenziali.
Il nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e il decesso
Venendo al tema del nesso di causalità tra le condotte ascritte alle imputate ed il decesso, le ragioni dei Giudici di merito non sono infondate, di talché va rilevata l’intervenuta maturazione del termine di prescrizione del reato per cui si procede a far tempo dal 29 marzo 2024, già considerando i 64 giorni (dal 9 marzo all’11 maggio 2020) per l’emergenza Covid 19.
Come già detto, l’addebito principale è di carattere omissivo, ovvero per non avere le imputate eseguito una stretta sorveglianza del paziente presso il pronto soccorso in attesa dell’ordinanza del TSO e, in secondo luogo, per non aver somministrato i farmaci ansiolitici che calmassero l’agitazione del paziente, addebito questo svalutato dalla decisione di appello.
La Corte territoriale, correttamente, ha ritenuto che entrambe le imputate rivestissero una posizione di garanzia che imponeva loro un obbligo di controllo e di protezione del paziente anche da atti autolesivi, a maggior ragione considerati anche gli intenti suicidari del paziente.
In particolare la Psichiatra non seguì personalmente il paziente, in quanto impegnata nella redazione necessaria per il TSO, né diede esplicite disposizioni in tal senso all’infermiera.
Responsabilità per omissione e nesso causale
Ergo, trattandosi di responsabilità per omissione, in tema di nesso causale, il reato viene ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Nel concreto tale giudizio si palesa incompleto e sommarlo.
La valutazione espressa dalla Corte di merito in sede di giudizio controfattuale si limita a richiamare categorie astratte e non presenta alcuna reale aderenza con la situazione concreta nella quale si sono trovare ad operare le due imputate. Anche la ricostruzione della serie causale intercorrente tra la condotta omissiva censurata e la more dell’uomo, valutata secondo i criteri penalistici, presenta evidenti criticità difettando la dimostrazione della sicura sussistenza del rapporto di causalità tra il comportamento omissivo concretamente tenuto dalle imputate e la morte.
Per tali motivi, difettando comunque ragioni di evidenza nel senso del proscioglimento dell’imputato per motivi di merito, la sentenza impugnata viene annullata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione.
Avv. Emanuela Foligno