Negato alle eredi di un lavoratore il risarcimento del danno morale per la perdita del loro congiunto sulla base del riconoscimento di malattia professionale da parte dell’Inail

Il provvedimento dell’INAIL di riconoscimento di malattia professionale non può assumere, ai fini di una eventuale responsabilità del datore di lavoro, né valenza indiziaria, stante la sua inopponibilità alla società, né valore di fatto notorio, non potendosi giuridicamente individuare come tale. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 7515/2021 pronunciandosi sul ricorso presentato dalle eredi di un lavoratore che si erano viste respingere in sede di merito la domanda volta ad ottenere la condanna della società datrice al risarcimento del cd. danno morale sofferto per il decesso del loro dante causa dovuto a patologia da questi contratta durante il periodo lavorativo.

La Corte di appello aveva rilevato come non fosse sufficiente, al fine di provare il necessario nesso di causalità tra la malattia del lavoratore e l’eventuale mancata adozione di misure atte a prevenire l’insorgere della patologia, il riconoscimento da parte dell’INAIL della malattia professionale che, comunque, non era opponibile all’azienda datrice; inoltre, aveva evidenziato che non era stata allegata né provata una attività illecita di qualsivoglia genere da parte della datrice.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte le ricorrenti contestavano al Collegio distrettuale di aver trascurato la valenza del provvedimento dell’INAIL in cui si evidenziava il riconoscimento, in favore del dante causa, dell’inabilità lavorativa totale e permanente per avere contratto il microcitoma polmonare, definito come malattia professionale polmonare per inalazione di I.P.A., e di non aver considerato che la dimostrazione della condotta illecita poteva essere fornita sulla base di nozioni di fatto notorie o che rientravano nella comune esperienza o anche sulla base di presunzioni semplici.

Gli Ermellini, nel rigettare le doglianze proposte, hanno sottolineato che le originarie ricorrenti avevano agito per ottenere il riconoscimento del danno cd. morale, iure proprio, sofferto per il decesso del proprio congiunto a cagione della malattia contratta durante l’attività lavorativa e che la fattispecie era stata correttamente inquadrata, dalla Corte territoriale, nell’ambito della responsabilità ex art. 2043 cc del datore di lavoro, da parte di soggetti non legati a questi da rapporto contrattuale.

La Corte di merito aveva correttamente sviluppato due argomentazioni a sostegno del proprio decisum: la prima riguardante l’inopponibilità alla società dell’avvenuto riconoscimento della malattia professionale, trattandosi di accertamento posto in essere in via amministrativa ed estraneo ad ogni contraddittorio con il datore di lavoro; la seconda concernente la mancanza di allegazione e prova, su una eventuale attività illecita del datore di lavoro, sotto il profilo omissivo e/o commissivo.

Il primo assunto, quello relativo alla non opponibilità alla società datrice del provvedimento di riconoscimento della malattia professionale da parte dell’INAIL non era stato impugnato specificamente dalle ricorrenti, circostanza che rendeva di fatto inammissibile ogni altro profilo di censura, in particolare quello di una eventuale valenza, come presunzione semplice, di detto riconoscimento, “in quanto la non opponibilità dello stesso alla società neutralizza ogni suo valore processuale, nell’ambito di questo giudizio, sia pure solo sotto l’aspetto meramente indiziario”.

La Cassazione ha poi aggiunto “che un provvedimento di riconoscimento di malattia professionale non può rientrare neanche nella comune esperienza di cui all’art. 115 co. 2 cpc, essendo escluse, in tale ambito, le valutazioni che, per essere formulate, necessitano di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante ctu o mezzi cognitivi peritali analoghi e per le quali non si può parlare di fatti o regole di esperienza pacificamente acquisite al patrimonio conoscitivo dell’uomo medio o della collettività con un grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile”.

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