Il rifiuto al trasferimento deve essere comunque accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria

Licenziato per il rifiuto al trasferimento presso un’altra sede lavorativa. E’ la vicenda da cui scaturisce la causa su cui si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 29054/2017.

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dato ragione al lavoratore dichiarando l’illegittimità del licenziamento. Il datore di lavoro, quindi, era stato condannato a reintegrarlo nel posto precedentemente occupato.

Per il datore di lavoro, il licenziamento era stato intimato “per l’inadempimento conseguente ad una assenza dal posto di lavoro”. Alla base del provvedimento, inoltre, vi sarebbe stato un giustificato motivo soggettivo conseguente a una diversa organizzazione aziendale. In realtà, il Giudice di secondo grado rilevava come il lavoratore avesse semplicemente “reagito” a un comportamento illegittimo del datore, che lo aveva trasferito in altra sede.

Nel ricorrere alla Suprema Corte, il datore lamentava una violazione, in sede di appello, degli articoli 1455 e 1460 c.c. Il Giudice a quo, infatti, non avrebbe accertato “l’importanza del preteso inadempimento del datore di lavoro, tale da rendere legittimo il rifiuto all’adempimento della prestazione lavorativa opposto dal lavoratore, che non si era presentato presso la sede nella quale era stato trasferito”.

Per gli Ermellini, tuttavia, “il mutamento della sede lavorativa deve essere giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

In mancanza di queste è configurabile “una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore”. Al riguardo la Cassazione richiama l’attuazione di un’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., nonché il rilievo secondo cui gli atti nulli non producono effetti.

I Giudici hanno precisato che, in caso di “trasferimento non adeguatamente giustificato”, il rifiuto del lavoratore di assumere servizio presso la nuova sede deve essere proporzionato all’inadempimento datoriale. Inoltre, deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria.

Nel caso esaminato, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva adeguatamente e motivatamente ritenuto che la reazione del lavoratore all’illegittimo trasferimento fosse stata pienamente “proporzionata”. Il dipendente, infatti, aveva comunque messo a disposizione “le sue energie lavorative presso la legittima sede di lavoro”.

La Suprema Corte, in conclusione, ha ritenuto infondato il ricorso presentato, rigettandolo e confermando pienamente la sentenza impugnata.

 

 

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