Rifiuto ingiustificato dell’esame genetico: con la sentenza n. 18626/2017, la Cassazione afferma che è “decisiva” fonte di convincimento.

Nel giudizio di impugnazione del riconoscimento di figli nati fuori dal matrimonio per difetto di veridicità, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad esame genetico, in presenza di una situazione di incertezza, sul piano probatorio, circa la sussistenza o meno del rapporto di filiazione biologica fra l’autore del riconoscimento ed il figlio, deve essere valutato dal giudice, ai sensi del comma 2 dell’art. 116 del c.p.c., come decisiva fonte di convincimento
E’ questo l’interessante principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione, Sezione Prima, con la sentenza n. 18626 depositata il 28 luglio 2017 (Giancola Presidente – Campanile Relatore).

I fatti

Gli Ermellini hanno dovuto fronteggiare un caso alquanto singolare: una madre, due padri e due presunti padri.
Il Tribunale di Ferrara, accogliendo l’impugnazione per difetto di veridicità proposta dal sig. C.M. in relazione al riconoscimento, da parte del sig. Z.G., dei figli gemelli, partoriti fuori dal matrimonio dalla sig.ra B.E., dichiarava che il convenuto non era il padre biologico degli stessi, affermando al contempo la propria incompetenza in merito alla domanda attorea di riconoscimento del rapporto di filiazione. Il Tribunale fondava il suo convincimento sui seguenti elementi: l’inizio della convivenza fra lo Z. e la B. in epoca successiva al concepimento, che viceversa era avvenuto durante il periodo cui risaliva la relazione fra la madre dei minori e il C.; il rifiuto dei convenuti al prelievo dei campioni per l’effettuazione di una consulenza genetica, la compatibilità del C. al 99,99 per cento risultante da un test di laboratorio prodotto dall’attore, sulla base di campioni biologici prelevati dai predetti gemelli.
La Corte territoriale ha accolto l’impugnazione proposta dalla sig.ra B., ed ha quindi rigettato la domanda del C., osservando che, non potendo attribuirsi valore probatorio al risultato dell’esame di laboratorio eseguito nell’interesse del C. in assenza del rispetto di qualsiasi garanzia di veridicità e del principio del contraddittorio, la circostanza stessa del prelievo all’insaputa dello Z., dei campioni sui minori da parte della madre, per consegnarli al C., dimostra che la B. evidentemente aveva dei dubbi sulla effettiva paternità dei minori.
Da tanto consegue che, essendo evidente che all’epoca la madre intratteneva rapporti tanto con lo Z. quanto con il C., mancava la prova certa dell’impossibilità oggettiva che l’autore del riconoscimento fosse il padre dei gemelli.

Il difetto di veridicità

Gli Ermellini per giungere al principio di diritto sopra enunciato operano una disamina delle decisioni in materia di impugnazione del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio per difetto di veridicità, e prendono le mosse da una recente decisione della stessa Corte di Cassazione in cui viene approfondito con particolare attenzione il tema della rilevanza degli aspetti probatori nelle azioni di status, sottolineando come, prima della disciplina introdotta con il D.lgs. n. 154 del 2013, nella materia in esame, si affermava che l’attore dovesse fornire piena prova della non veridicità del riconoscimento, apparendo tale maggior rigore giustificato dall’ampiezza dei soggetti legittimati alla proposizione della relativa azione.
Da tanto scaturiva che l’accesso alla prova genetica doveva essere preceduto dal positivo vaglio del materiale probatorio acquisito, nel senso che si riteneva la necessità della previa acquisizione, in base ai più recenti orientamenti, di almeno un principio di prova per poter dare ingresso ad un esame genetico (ex multis, Cass. n. 10585/2009; n. 17895/2013; n. 3217/2014).
Più recentemente ha acquisito maggiore rilevanza il rifiuto di sottoporsi al predetto esame, pur richiedendosi l’acquisizione di congrua documentazione, ovvero un’adeguata istruttoria testimoniale (Cass., 26 marzo 2015, n. 6136, in cui si afferma, fra l’altro, che “nell’attuale contesto socioculturale caratterizzato da ampie possibilità di accertamento del patrimonio bio-genetico dell’individuo, pensare di “segregare” l’atto negoziale di accertamento della paternità, escludendo il controinteressato dal fornire la prova del suo difetto di veridicità significa, ignorando il livello attuale delle cognizioni scientifiche e delle potenzialità di indagine, consentire ogni forma di abuso del diritto e, quindi, di adozione mascherata e fraudolenta del minore, non tollerabile in una società civile e trasparente”).
Con espresso riferimento al procedimento relativo all’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, è stato ribadito dagli Ermellini il carattere “decisivo” della consulenza tecnica d’ufficio ematologica, o genetica (Cass., 13 novembre 2015, n. 23290), tanto “da rendere comportamento processuale dotato di pregnante rilevanza il suo ingiustificato rifiuto” (Cass., 25 marzo 2015, n. 6025; Cass., 21 maggio 2014, n. 11223).
Il ricorso all’accertamento tecnico, e pertanto, la valutazione del comportamento della parte che con il proprio rifiuto non ne consenta l’effettuazione, è stato giustificato anche in presenza della “non univocità e alla discordanza tra gli elementi acquisiti” (Cass., 16 aprile 2008, n. 10007).
Questo assunto è stato ritenuto assolutamente condivisibile dalla Suprema Corte, poiché il mancato ricorso a uno strumento, reso disponibile dal progresso scientifico e dotato di un elevato grado di attendibilità (cfr. Corte cost., n. 266/2006), non appare del tutto coerente rispetto all’esigenza di verificare la fondatezza di una domanda attinente a una delicata questione attinente allo status della persona.
La Cassazione, però, non condivide la tesi in base alla quale la maggiore ampiezza dei soggetti legittimati alla proposizione della domanda ex art. 263 c.c., legittimerebbe un diverso regime probatorio, caratterizzato, quanto a quest’ultima, da maggior rigore, relativo alle azioni, sostanzialmente speculari, in materia di filiazione.

Quali sono le eccezioni proponibili?

La Suprema Corte ha già affermato (cfr. Cass., 22 novembre 1995, n. 12085), il principio secondo cui l’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere accolta non solo quando l’attore provi che l’autore del riconoscimento, all’epoca del concepimento, era affetto da “impotentia generandi” o non aveva la possibilità di avere rapporti con la madre, ma anche quando fornisca la prova di essere il vero genitore.
Nel caso in esame il rifiuto dei convenuti di sottoporsi ai prelievi di natura biologica, riconduce alla previsione dell’art. 116 c.p.c., comma 2.
Gli Ermellini osservano che “come sottolineato da recente e attenta dottrina, l’argomento di prova delineato da tale disposizione, che la giurisprudenza di questa Corte considera componente sufficiente a fondare il convincimento del giudice (cfr., Cass., 3 aprile 2013, n. 8088; Cass., 16 dicembre 2011, n. 27149; Cass., 29 settembre 2009, n. 20819), assume un valore intrinsecamente “relazionale”, nel senso che il grado di intensità della connessione fra il thema probandum e taluna delle circostanze indicate nella norma sopra richiamata può consentire, nei casi in cui assuma particolare rilevanza, di utilizzare anche in via esclusiva l’argomento di prova come fonte esclusiva del convincimento”
La riflessione della Corte è la seguente: se si considera l’elevato grado di certezza che si può conseguire attraverso l’acquisizione della prova scientifica in esame, è evidente come al comportamento ingiustificato della parte che non consenta di raggiungere quel risultato debba attribuirsi un elevato grado di significatività, tale da renderlo, come sostenuto anche da autorevole dottrina, “autosufficiente ai fini del giudizio di fatto”.

La Corte di appello di Bologna si è conformata ai su esposti principi?

La risposta della Suprema Corte è negativa.
Ed infatti, la Corte territoriale pur avendo sottolineato che la ricostruzione della vicenda presentava delle incertezze ha affermato che, dovendosi “escludere la certezza pretesa dall’art. 263 c.c.”, l’inizio della convivenza fra lo Z. e la madre dei gemelli quando costei si trovava al settimo mese di gravidanza assume un carattere “equivoco”, e “ancor meno vale la sottrazione processuale alla consulenza tecnica d’ufficio sul D.N.A.”.
In questo modo, osserva la Cassazione l’argomento di prova desumibile dal rifiuto di sottoporsi all’esame genetico, il cui carattere decisivo è stato assolutamente negletto, sarebbe utilizzabile quando, essendosi già conseguita la prova dell’assenza del rapporto di filiazione biologica, non si tratterebbe di superare una situazione di incertezza, ma di aggiungere certezza a certezza.
Per i Supremi giudici, quindi, la sentenza impugnata, deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello di Bologna che, in diversa composizione, applicherà il principio di diritto innazi enunciato.

Avv. Maria Teresa De Luca

 
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