Ritardato intervento di subamputazione del dito della mano e necrosi (Tribunale di Milano,  dep.  09/04/2021- RG n. 47240/2017 – Repert. n. 2629/2021 del 08/04/2021).

Ritardato intervento di subamputazione del dito della mano e necrosi tissutale con infezione del lembo subamputato.

Il paziente lamenta l’incrementato rischio di necrosi della zona subamputata e cita a giudizio la Struttura sanitaria, deducendo, in particolare il ritardato intervento di subamputazione alla base di F1, V dito della mano destra.

Il paziente veniva ricoverato presso l’Ospedale per l’intervento chirurgico, tuttavia attendeva un giorno e una notte per “indisponibilità della sala operatoria”. Trasferito presso altra Struttura, veniva operato, ma il Medico rilevava come fosse passato troppo tempo dall’infortunio.

Il paziente veniva dimesso e, dopo 4-5 giorni, si accorgeva che il dito stava diventando nero. Ricoverato nuovamente presso l’Ospedale, veniva constatata la necrosi del dito, che veniva totalmente amputato.

Sul ritardato intervento chirurgico sono concordi anche i CTU, che hanno affermato ” Attualmente il paziente presenta i segni clinici di un’amputazione alla base del quinto dito della mano destra. Il moncone di amputazione appare ben vascolarizzato e la cute normotrofica. Le condizioni attuali di salute del periziando sono quelle di una perdita anatomica stabilizzata del quinto dito della mano destra. Il periziando subì una subamputazione traumatica del quinto dito il 15/5/2016 tagliandosi con una falce e si recò presso il Pronto Soccorso dell’ospedale di Busto Arsizio. Ivi fu accettato alle ore 15:49, fu posta diagnosi di subamputazione quinto dito mano destra, all’esame obiettivo il lembo apparve vitale. Alla radiografia si rilevò: “frattura pluri -lineare scomposta della base di F1 V° raggio”. Fu quindi trasferito per competenza presso altra Struttura, ove è operativo un centro di Chirurgia della Mano. Il paziente giunse nella suddetta struttura alle ore 19:02. Fu ricoverato presso il reparto di Chirurgia della Mano alle 19:30. Successivamente il paziente rimase ricoverato senza essere sottoposto a trattamento chirurgico fino alla dimissione nella mattinata del 16/5/2016, quando fu trasferito presso altra sede.  Qui fu trattato chirurgicamente (inizio dell’intervento chirurgico ore 14:10 del 16/5 /2016). Fu riscontrato durante l’intervento che il 5° dito risultava vascolarizzato in continuità per il flessore profondo (50%), il peduncolo vascolo nervoso radiale e la cute radiale. Il decorso post operatorio fu regolare e il paziente fu dimesso il giorno successivo. In seguito alla comparsa di dolore il paziente si recò presso il Pronto Soccorso di un’altra Struttura ove si constatò la necrosi umida del quinto dito e pertanto si pose indicazione alla regolarizzazione del dito che avvenne il 23/5/2016. Il decorso successivo fu regolare con guarigione del moncone e ultima visita eseguita il 12/7/2016 con prescrizione di controllo al bisogno. Dalla disamina della cartella clinica e dalla raccolta anamnestica durante le operazioni peritali risulta che il paziente, al momento dei fatti per cui è in causa, era positivo all’HCV ed era affetto da cardiopatia ischemica per la quale aveva avuto un infarto cardiaco, trattato con stent. Non risultavano altre patologie di rilievo in anamnesi. Nel corso della prima valutazione presso il Pronto Soccorso di Busto Arsizio fu valutato che il dito subamputato era vitale, così come si legge dalla diaria clinica che il dito era vitale e vascolarizzato sino all’intervento chirurgico e successivamente fino alla dimissione del 17/5/2016. Si constatò durante l’intervento che l’unico fascio conservato, quello radiale era contuso ma continuo, ad indicare una condizione di vascolarizzazione precaria, ma che avrebbe dovuto migliorare dopo l’ intervento di stabilizzazione. Non vi sono in letteratura linee guida specifiche riguardo alla tempistica chirurgica di un dito subamputato ma vitale, con il lembo rimasto contuso ma continuo. Un dito completamente devascolarizzato avrebbe necessitato di trattamento chirurgico entro 6 ore. Nel caso di specie il dito era vitale e il trattamento chirurgico non richiedeva una tempistica così serrata. Si deve però considerare un altro fattore. Le fratture esposte, e nel caso in questione la frattura della falange prossimale era pluriframmentaria ed esposta, richiedono un trattamento tempestivo al fine di prevenire le infezioni e la necrosi tissutale. Nel caso di specie, con una comminuzione ed un danno vascolare il tempo per il trattamento chirurgico è ritenuto essere, secondo la letteratura, di 6 -12 ore. Si ritiene pertanto che sulla base della diagnosi e del quadro clinico, vi sia stato un ritardato intervento alla subamputazione, vedendosi così incrementato il rischio necrosi. Il tempo di 48 ore intercorso dal primo accesso in pronto soccorso all’intervento chirurgico ha sicuramente incrementato il rischio di necrosi tissutale e infezione del lembo subamputato. Le linee guida del trattamento delle fratture esposte comunemente suggeriscono un tempo di circa 6 -12 ore per il trattamento chirurgico di debridement. Considerando che vi era un danno vascolare e che quindi la frattura esposta era da considerarsi appartenente al tipo 3C della classificazione di Gustilo Anderson, utilizzata per classificare le fratture esposte, sarebbe stato opportuno intervenire nei tempi anzidetti. Se, come dichiarato nella lettera di dimissione del ricovero di Sesto San Giovanni, vi era indisponibilità di sala operatoria, sarebbe stato opportuno rendere edotto l’ospedale di provenienza, il quale avrebbe potuto operare scelte differenti e trasferire il paziente presso una struttura che avrebbe potuto operare il paziente in tempi più stretti. La complicanza verificatasi pertanto è da considerarsi prevedibile e sarebbe stata forse prevenibile, o perlomeno si sarebbe ridotto  il rischio della sua insorgenza, con un intervento chirurgico più tempestivo. Per quanto sopra, tenuto conto del danno iatrogeno derivato dalla condotta ritenuta censurabile negli aspetti e per i motivi dianzi esposti, avuto riguardo a quelli che comunque sarebbero stati gli esiti attendibilmente derivanti dal trauma anche laddove fosse stato posto in essere un trattamento medico -chirurgico del tutto esente da censure, è possibile prospettare un “maggior danno” biologico di natura permanente valutabile in misura pari al 4% (quattro per cento) da calcolarsi in una fascia di danno dal 4 all’8% a mente di quanto suggerito dalle guide di comune utilizzo in ambito medico -legale per la valutazione del danno biologico permanente”.

Il Tribunale condivide integralmente le conclusioni della CTU e condanna la Struttura a rifondere al paziente il ristoro del danno biologico.  

Avv. Emanuela Foligno

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