La Corte di Cassazione, con una specifica sentenza, si è espressa sulla possibilità di tartassare il capo di sms per farsi pagare lo stipendio

È reato tartassare il capo di sms per farsi pagare lo stipendio?
A riguardo ha detto la sua la Corte di Cassazione. I giudici, con la sentenza n. 51678 del 13 novembre 2017, hanno assolto un imputato dal reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.
L’uomo era stato accusato di tale reato per aver deciso di tartassare il capo di sms per farsi pagare lo stipendio.
Ma quando può dirsi configurato il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” (art. 393 c.p.)?
Nel caso esaminato dai giudici, un collaboratore scolastico era stato accusato di aver commesso il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” ai danni della direttrice amministrativa dell’istituto scolastico presso il quale era occupato.

Secondo l’accusa, il collaboratore avrebbe dovuto essere ritenuto responsabile di tale reato in quanto egli avrebbe inviato “numerosi messaggi telefonici” alla direttrice.

L’obiettivo era quello di “indurla a erogargli pretese spettanze retributive con i fondi di istituto”.
Il Tribunale di Lecce aveva condannato il collaboratore scolastico. A quel punto, l’uomo, si è rivolto in Cassazione per ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
La Corte ha quindi ritenuto di dover dar ragione al collaboratore scolastico, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Secondo i giudici, tartassare il capo di sms per farsi pagare lo stipendio non poteva considerarsi espressione di “arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera”.
Questo perché i messaggi erano di “contenuto attinente ad una questione legata a problemi in sede lavorativa”.
Pertanto, non poteva affermarsi che la condotta contestata all’imputato avesse assunto i caratteri della violenza o minaccia alle persone”.
Questi sono infatti gli elementi costitutivi del reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, di cui all’art. 393 c.p.
Per tali ragioni, la sentenza impugnata risultava carente di motivazione e non indicava nemmeno i passaggi del ragionamento logico svolto dal giudice per giungere alla decisione di condanna
La Corte ha quindi accolto il ricorso del collaboratore scolastico annullando la sentenza impugnata, “perché il fatto non sussiste”.
 
 
 
 
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