Non si può validamente sostenere nei giudizi aventi ad oggetto le tragiche morti da amianto che l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 21 D.P.R. n. 303/1956 avrebbe scongiurato morti e malattie e, soprattutto, sottratto a responsabilità chi ricopriva posizioni di garanzia. Non è corretto invocare quale fonte precauzionale l’osservanza di detta disposizione che, pur nella sua più ampia interpretazione e applicazione, si riferisce ad una situazione di tutt’altra natura rispetto a quella della inalazione delle fibre d’amianto, e la cui scrupolosa applicazione non avrebbe in alcun modo sortito l’effetto desiderato.
Premessa
La recente sentenza qui in esame, resa dal Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Napoli, offre all’interprete l’opportunità per alcune riflessioni in ordine alla responsabilità civile del datore di lavoro per l’infortunio sul lavoro e/o per la malattia professionale del lavoratore.
Tema che deve declinarsi secondo coordinate interpretative ossequiose del dettato del Legislatore così rifuggendo dalla tentazione di costruire il quadro normativo di riferimento secondo i canoni della responsabilità oggettiva, o da posizione.
Come anche, e forse ancor di più, il Giudice chiamato, come nel caso in esame, a dare veste giuridica ad un evento gravissimo, che sicuramente sconvolge la vita dei familiari, quale è quello della morte di un lavoratore, deve fare uso dei poteri istruttori in conformità alla legge (art. 421 c.p.c.) e dunque per il raggiungimento della verità processuale, e non certo per (cercare di) sanare eventuali decadenze in cui sia incorsa la parte ricorrente (familiari superstiti)[1].
Alla luce di queste indicazioni che, pur brevi, valgono a porre dei capisaldi in materia non seriamente contestabili, possiamo ora tratteggiare la vicenda all’esame dell’adito Giudice partenopeo.
La vicenda in punto di fatto
La domanda di giustizia, formulata da moglie e figli di un lavoratore deceduto, si articola nella richiesta di risarcimento di tutti i danni conseguenti a detto decesso e dovuto ad un carcinoma polmonare contratto (nel 2016), asseritamente, in conseguenza dell’esposizione ad amianto durante gli anni di lavoro nei cantieri del datore (dal 1973 al 1994) e che ne determinava la morte nello stesso anno.
Quello del risarcimento del danno (patrimoniale / non patrimoniale) patito in ragione delle malattie contratte in conseguenza dell’esposizione all’amianto sperimentata nello svolgimento dell’attività lavorativa è un tema di scottante attualità e vede protagonista, né potrebbe essere diversamente, anche il dibattito politico [2].
Al tempo stesso, il giurista, e in primis il Giudice chiamato a pronunciarsi nel caso concreto, deve rifuggire da interpretazioni personalistiche, quasi de iure condendo, e dalla tentazione di porsi alla stregua di un moderno giustiziere, per fare corretta applicazione delle normative di riferimento.
Il tutto alla luce del caso concreto: qui rilevando la vita “lavorativa” e “non” del soggetto deceduto sia ante 1973, sia post 1994 e non solo gli anni lavorativi tra dette date. Non senza dimenticare che trattavasi di un soggetto fumatore di circa 50 sigarette al dì sin dall’età adolescenziale.
La decisione resa dal Giudice
Il Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Napoli muove dal corretto, e consolidato, principio per cui quella ex art. 2087 c.c. non si configura alla stregua di una responsabilità oggettiva dell’imprenditore, per poi richiamare le tesi della nota (sin dai primi anni del 900) intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto facendone, così, derivare l‘obbligo per il datore di lavoro di adottare misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla citata norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. e, più specificamente, all’art. 21 D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303[3].
In tale ultima disposizione si è (era) stabilito che, nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualsiasi specie, il datore di lavoro deve adottare quei provvedimenti atti a impedirne o ridurne, per quanto possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente.
Con la precisazione che “le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione” (e cioè, secondo il Giudicante, “devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri stesse”).
Da tale norma, unitamente ad altre di cui al medesimo testo normativo, si fa discendere la conclusione per cui, nel caso concreto, sussisteva una ipotesi di inadempimento del disposto di cui all’art. 2087 c.c. in forza del quale – si legge in sentenza – “all’imprenditore si impone di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Rilievi critici. La portata dell’art. 21
Il ragionamento operato dal Giudice nella sentenza qui in esame non risulta condivisibile laddove ci si sofferma ad osservare che la suddetta disposizione (art. 21 cit.) non è stata dettata per l’amianto, bensì per tutte le polveri moleste diffuse nell’ambiente in quantitativi considerevoli.
Né tanto meno la stessa si appalesa immediatamente riferibile alla polluzione di piccolissime fibre come quelle dell’asbesto, non percepibili con l’inalazione.
Il tutto fermo restando che il comportamento cautelare allora richiesto dal Legislatore non era quello di eliminare l’aerodispersione, bensì quello di contenerla entro definiti limiti quantitativi.
In definitiva il D.P.R. n. 303 del 1956, all’art. 21 non conteneva una regola cautelare da valere quale statuto degli obblighi datoriali in materia di aerodispersione di particelle di amianto, rappresentando piuttosto un mero principio generale che imponeva al datore di lavoro la ricerca e l’adeguamento tecnico nel contenimento delle polveri nei luoghi di lavoro[4].
Emerge così con evidenza la genericità della fonte dell’obbligo (art. 21 cit.), “pensata”, ormai quasi 70 anni fa, in relazione al problema di ridurre la presenza di polveri fisicamente avvertibili e oggettivamente moleste sia quantitativamente che qualitativamente. Sicché essa non può essere applicata all’aerodispersione di fibre di amianto.
La disposizione dell’art. 21 ha poi un contenuto precettivo modale non puntualmente individuato: essa abbisogna della etero-integrazione operata attraverso le conoscenze scientifiche disponibili al tempo in cui deve (doveva) farsene applicazione.
Questo è il senso del richiamo ai provvedimenti atti a impedire o ridurre “per quanto possibile” lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell’ambiente di lavoro[5].
Quale fonte normativa per quale obbligo di cautela
A questo punto del nostro argomentare appare evidente l’errore in cui incorre il Giudice del Lavoro di Napoli nel ritenere, dapprima, in riferimento alle lavorazioni con l’amianto sino ai primi anni 90 “l’inesistenza di strumenti di protezione idonei anche solo alla riduzione della possibilità di contrazione della maggior parte delle patologie asbesto correlate” per, poi, concludere sanzionando la condotta del datore di lavoro per non aver “scongiurato la nociva esposizione dei lavoratori alle fibre di amianto e, più nello specifico, non [aver, ndr] adottato alcuna cautela o, comunque tutte le cautele necessarie ad abbattere le polveri e la loro dispersione negli ambienti di lavoro”.
E cioè a dire, secondo il Giudice, da un lato, non esistevano all’epoca di riferimento strumenti di protezione idonei, dall’altro lato, è colpa del soggetto imprenditoriale-datore di lavoro aver omesso di fornire al lavoratore quegli stessi presidi ritenuti inesistenti!
Si consideri, a certificare l’assenza di un dato normativo fonte certa di obbligo nella materia qui in esame, che, nella causa C-240/89, tra Commissione delle Comunità Europee e Repubblica Italiana, la Corte di Giustizia ha reso la sentenza n. 13712 del 13 dicembre 1990[6] affermando, in punto di diritto, che: “La Repubblica italiana, non adottando nei termini prescritti i provvedimenti, diversi da quelli relativi alle attività estrattive dell’amianto, necessari per conformarsi alla direttiva del Consiglio 19 settembre 1983, 83/477/CEE, sulla tutela dei lavoratori contro i rischi connessi ad un’esposizione all’amianto durante il lavoro, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CEE”.
Se è certamente doveroso, ed encomiabile, valorizzare i diritti delle parti danneggiate (o comunque lese), non bisogna correre il rischio di passare da un diritto volto a stabilire le “responsabilità” ad un diritto volto ad assicurare (solo) “risarcimenti” soprattutto laddove si tratti, come nel caso qui in esame, di temi sociali che neppure le istituzioni hanno saputo adeguatamente gestire e la cui soluzione non può essere delegata al processo, sia esso civile o penale, penale (App. Milano, sez. V pen., 19 gennaio 2023, n. 8369/2022).
Delineare l’esatto quadro normativo di riferimento è indispensabile per la ricostruzione del nesso di causa tra una azione-omissione e l’evento, ciò riverberando sulla possibilità stessa di individuare quell’omissione causalmente rilevante nel determinismo dell’evento, e, per tale via, conseguentemente, sulla connotazione in termini di antigiuridicità della stessa omissione.
In altri termini, considerato che non tutte le omissioni rilevano, ma solo quelle che mutuano la loro antigiuridicità dalla espressa disposizione normativa che imponeva una determinata condotta alternativa alla omissione medesima (previsione dell’obbligo di facere), è indispensabile avere un riferimento normativo certo.
La ricerca di un quadro normativo di riferimento
Quanto al profilo qui in esame, è da rilevare come, prima del combinato di cui alla Legge 27 marzo 1992, n. 257[7] ed al D.M. 6 settembre 1994[8], il D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277[9], ormai abrogato e sostituito con il T.U. n. 81/2008, all’art. 22 descriveva l’ambito di applicazione così delimitandolo: “Le norme del presente capo si applicano a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione alla polvere proveniente dall’amianto o dai materiali contenenti amianto”.
Nel corpo della legge vengono poi descritte le esposizioni personali rilevanti dei lavoratori alla polvere di amianto, individuandole “come numero di fibre per centimetro cubo in rapporto ad un periodo di riferimento di otto ore” che “supera 0,1 fibre per centimetro cubo”, delineando la condotta da assumere ai sensi degli artt. 25, I, 26, II, 27, II, 28, II, 30 e 35.
In particolare, quanto alle condotte da tenere, l’art. 25 fa riferimento ad un obbligo di notifica di dati, così esprimendosi: “il datore di lavoro, che esercita attività nelle quali l’esposizione dei lavoratori alla polvere di amianto risulta uguale o superiore ai valori indicati ai commi 3 o 5 dell’art. 24, notifica all’organo di vigilanza le risultanze della valutazione di cui allo stesso articolo, unitamente alle seguenti informazioni … “.
Sostanzialmente, si tratta di una prima “presa di coscienza” da parte del Legislatore della tematica in punto di amianto che, senza vietarne l’uso, indica tutta una serie di adempimenti e misurazioni per attività lavorative che ne contemplino l’uso.
L’indicazione contenuta nella legge di esercizio di attività nelle quali vi è l’esposizione dei lavoratori alla polvere di amianto secondo determinate entità, sembra rimandare non già ad esposizioni accidentali, ovvero al rilascio da manufatti, ma ad una lavorazione vera e propria che contempli, cioè, il minerale quale oggetto delle lavorazioni.
Invero l’art. 25, nel prevedere l’obbligo di notifica all’organo di vigilanza, individua le seguenti informazioni da fornire: “a) attività svolte e procedimenti applicati; b) varietà e quantitativi annui di amianto utilizzati; c) prodotti fabbricati; d) numero di lavoratori addetti; e) misure di protezione previste, con specificazione dei criteri per la manutenzione periodica e dei sistemi di prevenzione adottati”.
La normativa de qua, pertanto, sembra essere più pertinente a contesti diretti di lavorazione di amianto che a situazioni di esposizione indiretta ad amianto, contesti, questi ultimi, successivamente (e specificamente) analizzati dal D.M. 6 settembre 1994, ove si consideri che nel caso di esposizione per rilascio da manufatti appare difficilmente definibile, in funzione delle comunicazioni, la “varietà e quantitativi annui di amianto utilizzati”.
Ed allora, tirando le fila del discorso, veramente si può ancora sostenere nei giudizi relativi alle tragiche morti da amianto, proprio alla luce di quegli stessi studi che spesso si invocano per dimostrare che qualsiasi apporto causale anche minimo possa essere fonte di insorgenza o ingravescenza della malattia, che l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 21 D.P.R. n. 303/1956 avrebbe scongiurato morti e malattie e, soprattutto, sottratto a responsabilità chi ricopriva posizioni di garanzia?
Va ricordato, piuttosto, che, a fronte di un maturare scientifico e conoscitivo della pericolosità dell’amianto durato decine di anni, neppure il Legislatore è stato in grado di offrire norme e disposizioni tanto tempestive da impedire, o almeno ridurre, l’incidenza delle malattie asbesto collegate.
Che una disposizione come l’art. 21 cit. non si possa validamente invocare per una “polvere” tanto micidiale e mortale come l’amianto, la cui inalazione anche di poche fibre è idonea a innescare un processo cancenogenico, si evince anche dal fatto che, progressivamente, lo stesso Legislatore è giunto ad imporre la soglia della “tolleranza zero”.
Non appare quindi coerente invocare quale fonte precauzionale l’osservanza di una disposizione che, pure nella sua più ampia interpretazione e applicazione, si riferisce ad una situazione di tutt’altra natura rispetto a quella oggetto della decisione qui in esame, e la cui scrupolosa applicazione non avrebbe in alcun modo sortito l’effetto desiderato (al di là della inattuabilità nel caso concreto).
Basti a tal proposito osservare che tutte le operazioni di bonifica dei siti inquinati dall’amianto vengono oggi eseguite da soggetti isolati dall’esterno con dotazioni -tute e maschere respiratorie- degne di quelle viste indosso ai medici a contatto con pazienti COVID, o in situazioni ancora peggiori.
La questione del nesso causale
Altro profilo cui non può omettersi di fare riferimento è quello del nesso causale che, in tema di responsabilità civile, a differenza del processo penale ove opera il principio del meccanismo processuale del cd. “oltre ragionevole dubbio”, si informa alla regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, da verificarsi in virtù della cd. “probabilità logica”, nell’ambito degli elementi di conferma e, nel contempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto [10].
In particolare, a fronte di una malattia ad eziologia multifattoriale (quale il tumore), devono richiamarsi i consolidati principi di diritto affermati dalla Corte di Cassazione, secondo cui il nesso di causalità relativo all’origine professionale di essa non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, che può essere, peraltro, data anche in via di probabilità, ma soltanto ove si tratti di “probabilità qualificata”, da verificare attraverso ulteriori elementi idonei a tradurre in certezza giuridica le conclusioni in termini probabilistici del consulente tecnico[11].
In tale contesto, dunque, in presenza di una malattia professionale, derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità.
A tal fine il Giudice, oltre a consentire all’assicurato (lavoratore-suoi eredi) di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, è tenuto a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale potendosi desumere, con elevato grado di probabilità, la natura professionale della malattia dalla tipologia della lavorazione, dalle caratteristiche dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione stessa, nonché dall’assenza di altri fattori causali extralavorativi alternativi o concorrenti[12].
I fattori causali extralavorativi
Proprio quest’ultimo punto è di particolare rilievo nella vicenda all’esame del Giudice del Lavoro di Napoli: il lavoratore si ammala a 22 anni dalla cessazione del rapporto di lavoro e decede in tempi brevissimi (meno di un anno) così che sarebbe stato compito del Giudice indagare la sua quotidianità (lavorativa e non) durante detto periodo considerando, come anticipato, il tabagismo del lavoratore.
Va, infatti, ricordato che è scientificamente assodato che la tossicità dell’amianto si manifesta principalmente in caso di inalazione delle relative fibre e che il rischio per la salute è direttamente legato alla quantità ed al tipo di fibre inalate, alla loro stabilità chimica, nonché ad una predisposizione personale a sviluppare la malattia.
In particolare, in base alle attuali conoscenze scientifiche sui rischi da esposizione all’amianto, le fibre di amianto inalate possono produrre principalmente le seguenti patologie: l’asbestosi (patologia non tumorale del polmone), il carcinoma (patologia tumorale del polmone), il mesotelioma (patologia tumorale della pleura o del peritoneo), tumori del tratto gastro-intestinale, della laringe e di altre sedi.
Inoltre, mentre è scientificamente pacifica la dose-dipendenza dell’asbestosi e del carcinoma polmonare, per quanto riguarda il mesotelioma, il discorso si presenta decisamente più complesso.
In altre parole, la scienza medica ha appurato che mentre nel mesotelioma pleurico, nei soggetti suscettibili esposti ad amianto, l’effetto cancerogeno può essere conseguente ad una “dose” estremamente bassa, al contrario, per tutti gli altri tumori – compreso il carcinoma polmonare da amianto – dosi basse non producono effetti epidemiologicamente dimostrabili.
È stato anche specificato che il carcinoma polmonare è in rapporto sicuro con l’amianto solo se vi è asbestosi o “l’evidenza di un’affezione pleurica causata dall’amianto”, in quanto in difetto di tali evenienze, il suddetto tumore può essere conseguenza, ad esempio, del fumo di sigarette. Il che presuppone obiettivi riscontri anatomo-patologici e il rinvenimento di fibre di amianto nei polmoni in quantità rilevanti.
A tali dati ha fatto riferimento anche il Piano Nazionale Amianto (PNA) del marzo 2013, cui si è pervenuti a conclusione della Seconda Conferenza Governativa Amianto, organizzata ai sensi della L. n. 257/1992 (22-24 novembre 2012), dove si sono confrontate tutte le componenti interessate, insieme a giuristi, scienziati ed esperti epidemiologi e clinici dell’Università e del SSN, per poter giungere alla definizione della “Linee di intervento per un’azione coordinata delle amministrazioni statali e territoriali” nella materia (contenute nel suddetto PNA).
Nel Piano è stato anche evidenziato che “le fibre di amianto interagiscono in maniera sinergica con altri cancerogeni, in particolare con il fumo di tabacco nel causare il tumore polmonare (che comunque può svilupparsi anche nei non fumatori)” e che, in particolare, tra i tumori a “bassa frazione eziologica” – i quali hanno anche importanti cause extralavorative – rientra, ad esempio il tumore polmonare, “per la maggior parte correlato al fumo di sigaretta”.
Inoltre, si è anche sottolineata la necessità, al fine di una corretta individuazione dei soggetti che contraggono malattie amianto-correlate, di definire in modo dettagliato, e puntuale, presupposti e condizioni delle diverse patologie riscontrate, onde stabilire i casi in cui le patologie sono state contratte “in ambito familiare”[13].
L’onere della prova
Nel sistema dell’assicurazione contro le malattie professionali[14] – quale risulta per effetto dell’ampliamento della protezione alle malattie professionali non tabellate operato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 179/1988 – la distinzione tra le malattie comprese nelle tabelle e quelle ivi non comprese rileva sul piano della prova del nesso di causalità.
Costituisce infatti principio consolidato quello secondo il quale l’inclusione nella tabella sia della lavorazione svolta che della malattia contratta (purché insorta entro il periodo massimo d’indennizzabilità eventualmente previsto) comporta l’applicazione della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall’assicurato.
In tal caso, dunque, al lavoratore è sufficiente dimostrare lo svolgimento professionale della lavorazione indicata in tabella e di essere affetto dalla malattia ivi prevista, per essere esonerato dalla prova dell’esistenza del nesso di causalità tra l’uno e l’altra, avendo già l’ordinamento compiuto la correlazione causale tra i due termini[15].
Con la precisazione che in caso di malattie pur previste in tabella, ma ad eziologia plurima o multifattoriale, il lavoratore deve comunque fornire la prova, in termini di rilevante o ragionevole probabilità scientifica, dell’idoneità dell’esposizione al rischio a causare l’evento morboso[16].
Una tale soluzione non costituisce deroga ai principi propri del sistema tabellare, ma conseguenza del fatto che il sistema tabellare esonera il lavoratore dalla prova del nesso di causalità tra la lavorazione tabellata e la malattia, ma non dalla prova dell’adibizione professionale alla prima.
Le tabelle richiamate all’art. 3 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124[17], come noto, vengono rinnovate tenendo conto delle acquisizioni della scienza medica nelle forme e nei modi previsti dall’art. 10 D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 [18], attraverso i lavori dell’apposita Commissione scientifica, ed hanno ad oggetto lavorazioni astrattamente individuate come tipiche.
Per far scattare la presunzione di nesso causale in concreto, ed in relazione al caso specifico, la prova del lavoratore dovrà dunque avere ad oggetto (oltre alla contrazione della malattia tabellata) lo svolgimento di una lavorazione che rientri nel perimetro legale della correlazione causale presunta e che sia ritenuta idonea, secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica, a provocare la malattia. Solo in tal caso la fattispecie concreta potrà ritenersi aderente a quella astratta prevista dalla tabella e potrà scattare la presunzione di eziologia professionale con specifico riferimento a quel lavoratore.
La presunzione legale in questione non è assoluta, rimanendo la possibilità per l’Inail di fornire la prova contraria, ad esempio dimostrando che la malattia, per la sua rapida evoluzione, non è ricollegabile all’esposizione a rischio, in quanto quest’ultima sia cessata da lungo tempo, oppure che il lavoratore è stato concretamente esposto all’agente patogeno connesso alla lavorazione tabellata in misura non sufficiente nel caso concreto a cagionare la malattia, o che sussista un fattore extralavorativo che sia stato di per sé idoneo a determinarla[19].
Conclusioni
A termine di queste brevi riflessioni a margine della sentenza resa dal Giudice del Lavoro di Napoli si richiama alla mente un’Italia, quella degli anni 70-90 del secolo scorso, che sembra ormai lontana ma che, in realtà, è quella vissuta a pieno, anche dal punto di vista lavorativo, da quanti oggi hanno i capelli bianchi.
È l’Italia che faceva gran uso dell’amianto, commercializzato nei più svariati settori.
Erano composti di amianto, o comunque contenevano amianto: i freni delle autovetture che, così, ad ogni frenata disperdevano in aria polvere d’amianto (aria che, soprattutto nelle grandi città trafficate, raggiungeva concentrazioni altissime di tale materiale); le tute dei Vigili del Fuoco, come anche i manicotti dei loro tubi antincendio; i carrelli portabombe allocati nella parte inferiore dei velivoli miliari; le vernici (fino al 1979) contenevano amianto come additivo; talune parti di aeromobili.
Sulle navi, poi, i gruppi elettrogeni, al fine di evitare il rischio incendio, avevano componenti in amianto usato come isolante.
Ma il più comune, e diffuso, utilizzo dell’amianto avveniva in edilizia (sia pubblica che privata).
Si consideri che i sistemi frenanti degli ascensori erano composti da amianto; moltissime coperture erano di cemento-amianto (idem per controsoffitti, isolamenti dei sottotetti, pavimenti in vinil-amianto, divisori, tamponature e pannelli in genere), come anche vari componenti delle caldaie o delle centrali termiche contenevano amianto.
Non solo. Gli stessi serbatoi di scorta dell’acqua potabile, i tubi di adduzione, nonché le relative flange (cioè gli elementi di congiunzione) erano in amianto.
Canne fumarie, ma anche guanti e presine per camini, barbecue e forni, erano realizzati facendo largamente uso dell’amianto.
In questo contesto viveva una popolazione del tutto disinformata sui gravi danni alla salute legati al tabagismo, soprattutto in età giovanile, permettendo – uno Stato monopolista in tale settore – di fumare anche nei treni, nei teatri, nei ristoranti, in una sola parola ovunque.
E così, per addivenire ad una sentenza di condanna, come quella qui in esame, è doveroso per il Giudice procedere ad una attenta analisi del caso concreto avuto riguardo alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore (e ai mezzi di protezione adoperati), alla evoluzione (più o meno rapida) della malattia, al tempo trascorso tra l’esposizione a rischio e la malattia stessa, alla condotta extra lavorativa dell’interessato (abitudini di vita) sia prima dell’assunzione, che durante, che dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Il tutto coadiuvato dal lavoro dei consulenti tecnici (inclusi quelli di parte) essendo indispensabili riscontri anatomo-patologici oggettivi.
L’obiettivo è quello di evitare l’introduzione nel sistema ordinamentale di una forma, normativamente non prevista, di responsabilità oggettiva.
Avv. Giuseppe Cassano
[1] In particolare, il Giudice, nella vicenda oggetto del suo esame, ha chiesto alla parte ricorrente la produzione della copia integrale della sentenza che riconosceva (contro l’Inail) alla moglie del defunto lavoratore la rendita ai superstiti per il lavoro svolto dal coniuge, dell’attestazione del passaggio in giudicato e dei verbali delle relative udienze istruttorie. Tale ordinanza di produzione documentale esorbita dai limiti ex legge valendo il principio generale per cui il Giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche all’esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’art. 421 c.p.c. – non può invece sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (App. Napoli, sez. lav., 30 giugno 2022, n. 2677).
[2] In dottrina si vedano i contributi di: Bartoli R., Il nodo irrisolto della sentenza Franzese e le conseguenze nefaste nei processi d’amianto, in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2022, n. 4, Giuffrè, p. 1071; Centonze F., Esposizione ad amianto e mesotelioma: l’ineludibile accertamento particolaristico, in Giurisprudenza italiana, 2020, n. 10, Utet, p. 2255; Corbetta S., Morte del lavoratore per esposizione ad amianto: ancora sull’accertamento del nesso causale, in Diritto penale e processo, 2020, n. 6, Ipsoa, p. 747; Finocchiaro S., La responsabilità penale per mesotelioma pleurico causato dall’esposizione ad amianto: una patologia di sistema, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2021, n. 1, Giuffrè, p. 161; Prandi S., Malattie professionali da amianto: il limite all’accertamento della causalità nel difficile rapporto tra scienza e diritto, in Diritto penale e processo, 2020, n. 4, Ipsoa, p. 529; Tullini P., Patologie da amianto e risarcimento del danno differenziale, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2023, n. 1, Giuffrè, parte II, p. 131; Zirulia S., Contrasti reali e contrasti apparenti nella giurisprudenza post-Cozzini su causalità e amianto. Riflessioni per un rinnovato dibattito sul c.d. effetto acceleratore nei casi di morte per mesotelioma, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2019, n. 3, Giuffrè, p. 1289.
[3] Recante “Norme generali per l’igiene del lavoro”.
[4] V. Cass. pen., sez. IV, 27 aprile 2018, n. 18384.
[5] È peraltro frequente, come noto, la scelta del Legislatore, nel caso di attività pericolose, di imporre determinate cautele idonee a ridurre il rischio facendo riferimento a criteri generici che possono di volta in volta essere specificati con il richiamo alle cautele che la scienza, l’esperienza e l’evoluzione tecnologica dell’epoca sono in grado di suggerire. Nelle attività pericolose consentite (e questo vale anche per le attività non di tipo lavorativo) l’agente deve attivare le misure preventive che le conoscenze del momento consentono di ritenere le più idonee ad evitare il verificarsi di eventi dannosi.
[6] Ivi si afferma “La Repubblica italiana, pur ammettendo sostanzialmente che non sono stati ancora adottati i provvedimenti necessari per l’attuazione della direttiva nel proprio ordinamento, osserva che la normativa italiana contiene attualmente varie disposizioni volte a garantire la tutela della salute dei lavoratori e che, inoltre, il governo italiano ha promosso un’iniziativa specifica con la quale è stata chiesta al Parlamento una delega legislativa allo scopo di adottare le norme necessarie per attuare, mediante decreto del presidente della Repubblica, le numerose direttive in materia di sanità e di tutela dei lavoratori, tra le quali rientra la direttiva in questione. Nella fase orale, essa ha precisato che detta iniziativa è sfociata nella legge n. 112, promulgata e pubblicata il 30 luglio 1990, ma osserva che è necessario un certo tempo per dare attuazione alla direttiva in questione.
Si deve ricordare a questo proposito che, secondo la costante giurisprudenza, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, pratiche o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti dalle direttive”.
[7] Recante “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”.
[8] Recante “Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto”.
[9] Testo che conteneva norme di attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a nonna dell’art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212, tra i quali l’amianto.
[10] V. Cass. civ., sez. lav., 3 gennaio 2017, n. 47; Cass. civ., sez. III, ord., 27 settembre 2018, n. 23197; Cass. civ., sez. lav., 12 giugno 2019, n. 15761.
[11] V. Cass. civ., sez. lav., 20 maggio 2004, n. 9634; Cass. civ., sez. lav., 5 agosto 2010, n. 18270: Cass. civ., sez. lav., 24 novembre 2015, n. 23951.
[12] V. Cass. civ., sez. lav., 7 marzo 2017, n. 5704 e da ultimo Trib. Gorizia, sez. lav., 28 novembre 2023, n. 222.
[13] V. Cass. civ., sez. lav., 30 luglio 2013, n. 18267; più di recente Cass. pen., sez. IV, 24 luglio 2023, n. 31812 chiude con l’assoluzione degli imputati una complessa vicenda giudiziaria relativa alla morte di un lavoratore-fumatore sul rilievo dell’assenza del nesso di causa tra la asbestosi polmonare da inalazione di amianto e il decesso dello stesso lavoratore, avvenuto per collasso cardiocircolatorio all’età di quasi settantotto anni, quando era in pensione da più di venti anni e non più esposto alle inalazioni di amianto da trenta.
[14] Cass. civ., sez. un., 9 marzo 1990, n. 1919.
[15] V. Cass. civ., sez. lav., 21 novembre 2016, n. 23653; Cass. civ., sez. lav., ord. 24 maggio 2017, n. 13024; Cass. civ., sez. lav., ord. 20 giugno 2018, n. 16248; Cass. civ., sez. VI – Lav., ord., 4 febbraio 2019, n. 3207.
[16] V. Cass. civ., sez. lav., 12 ottobre 2012, n. 17438; Cass. civ., sez. lav., ord. 31 maggio 2017, n. 13814; Cass. civ., sez. lav., ord. 10 aprile 2018, n. 8773.
[17] Recante “Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”.
[18] Recante “Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144”.
[19] Cass. civ., sez. lav., 25 settembre 2004, n. 19312; Cass. civ., sez. lav., 4 febbraio 2020, n. 2523.