Respinto il ricorso di una dipendente che chiedeva gli venisse riconosciuto il diritto al controvalore dei buoni pasto avendo rinunciato alla pausa pranzo

Una dipendente ministeriale aveva prestato servizio dal 2001 al 2005, sulla base di un orario giornaliero dalle 8 alle 15,12, per cinque giorni la settimana, rinunciando, con il consenso dell’Amministrazione, alla pausa pranzo. La donna, non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto giornalieri, aveva agito giudizialmente per ottenere il pagamento del controvalore pecuniario, oltre al risarcimento del danno.

In sede di merito la domanda era stata respinta. La Corte territoriale, in particolare, aveva affermato che l’art. 4 del CCNL di riferimento condizionava il riconoscimento del buono pasto all’effettuazione della pausa pranzo, cui invece la ricorrente aveva rinunciato; d’altra parte, aggiungeva la Corte, la circolare ministeriale del 10.2.1998, nel riconoscere la possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, ma con mantenimento del diritto al buono pasto, si riferiva al caso di recupero in soli due giorni delle ore non effettuate nella sesta giornata settimanale, con orario di lavoro di nove ore e restava subordinato ad esigenze di servizio.

Nel caso di specie, nulla era risultato in ordine alla ricorrenza di ragioni organizzative di interesse dell’Amministrazione nell’accogliere la domanda della lavoratrice di rinuncia alla pausa pranzo e dunque, al di là del fatto che la circolare non poteva rivestire effetti normativi, comunque non ricorrevano neppure i presupposti da essa indicati.

La Cassazione, adita dalla dipendente, ha ritenuto di confermare la decisione del Giudice a quo.

Secondo gli Ermellini, infatti, il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa. Data tale natura, il diritto dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentano il riconoscimento; in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che quella pausa sia in concreto fruita; le norme primarie (art. 3, co. 1, L. 334/1997 e art. 2, co. 11, L. 550/1995) si limitano del resto a rinviare, per le regole di attribuzione dei buoni pasto, ad appositi accordi collettivi.

Nel caso esaminato, la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 22985/2020, ha in effetti ritenuto che “in materia di trattamento economico del personale del comparto Ministeri, il cosiddetto buono pasto non è, salva diversa disposizione, elemento della retribuzione “normale”, ma agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale”, la quale quindi “spetta solo ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 4 dell’accordo di comparto del personale appartenente alle qualifiche dirigenziali del 30 aprile 1996, che ne prevede l’attribuzione ai dipendenti con orario settimanale articolato su cinque giorni o turnazioni di almeno otto ore, per le singole giornate lavorative in cui il lavoratore effettui un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la pausa all’interno della quale va consumato il pasto, dovendosi interpretare la regola collettiva nel senso che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione di riconoscimento del buono pasto”.

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