Accolto il ricorso di un camice bianco convenuto in giudizio dagli eredi di una donna morta in seguito a una caduta dal letto nella clinica presso cui il professionista prestava servizio

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 27683/2021, si è pronunciata sul ricorso di un medico, convenuto in giudizio, dagli eredi di una paziente deceduta in seguito a una caduta dal letto in clinica. Nello specifico, gli attori allegavano che la vittima era affetta da sindrome psico-organica con deterioramento cognitivo, cardiopatia scleroipertesa, e, in particolare, polineuropatia degli arti inferiori con “deficit” deambulatorio e tremori, sicché assumeva farmaci antiaggreganti, oltre che per la cura del Parkinson e della patologia ischemico-ipertensiva; a seguito di caduta dal letto, avvenuta alle ore 22.40, la stessa, ricoverata presso l’istituto in questione, era stata trasportata in ospedale dov’era arrivata, alle ore 7.27, in corna, con ematoma alla parte destra del viso, e, secondo le risultanze degli esami, ematoma extradurale in sede temporo-fronto-parietale; la signora era stata pertanto trasportata in eliambulanza a Roma dove, malgrado un immediato intervento chirurgico, era deceduta; la morte era addebitabile ai ritardi e, più in generale, alle omissioni delle appropriate verifiche da parte del dottore, riferibili all’istituto per cui lo stesso operava.

La Corte di appello, in riforma della pronuncia del Tribunale, aveva accolto la domanda attorea evidenziando che: i dati oggettivi della caduta e della condizione psicofisica della paziente avrebbero dovuto indurre a una più pronta, costante e appropriata assistenza, come confermato anche dalla consulenza disposta dal Pubblico Ministero nel procedimento penale, terminato con sentenza di non doversi procedere per prescrizione; la stessa consulenza tecnica d’ufficio effettuata in primo grado aveva indicato che la tipologia di evento (caduta) e paziente (come sopra descritta e risultata) avrebbe dovuto indurre a una osservazione clinica costante di almeno 6 ore con esame TAC del cranio, successiva osservazione protratta per 24 ore, ripetizione della TAC, indicata in presenza di coagulopatie e trattamenti anticoagulanti, mentre la consulenza neurochirurgica sarebbe stata necessaria in ipotesi di lesione intracranica documentata dalla TAC; poiché dalla cartella clinica non emergeva che fosse stato fatto tutto ciò, e poiché la stessa perizia effettuata in sede civile aveva spiegato che, con idonee attrezzature in struttura medica in specie dotata di TAC cerebrale, e con pronta diagnosi, se la paziente fosse stata sottoposta a intervento chirurgico entro 2 o 3 ore dal trauma gli esiti neurologici sarebbero stati comunque altamente invalidanti ma la stessa non sarebbe deceduta, ne derivava la responsabilità per inadempimento riferibile alla struttura dove operava il medico convenuto, e a quest’ultimo per la condotta, omissiva, individuabile tra la caduta e l’affidamento all’ambulanza; spettava quindi alle figlie il danno da perdita del rapporto parentale afferente anche alla sofferenza morale, il danno biologico terminale, in chiave ereditaria, sofferto tra la caduta e la morte, essendovi stato apprezzabile lasso temporale, e il danno da sofferenza morale, sempre a titolo ereditario, riferibile al marito poi deceduto; non spettava risarcimento in favore dei nipoti, in assenza di dimostrazione dei concreti rapporti con la nonna, e dell’età dei primi progressivamente autonoma.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, il camice bianco deduceva, tra gli altri motivi, che la Corte di appello aveva errato mancando di considerare che: l’istituto non era dotato di apparecchiature per eseguire l’esame TAC, diversamente da quanto ipotizzato dal consulente del Pubblico Ministero nel fare le proprie valutazioni; la consulenza tecnica d’ufficio effettuata in sede civile, d’altro canto, aveva accertato che, fino al peggioramento clinico avvenuto dopo 6 ore e 20 minuti dalla caduta, quando la visita del medico di guardia non aveva registrato segni neurologici tali da considerare il trauma cranico più che minore secondo la “Glasgow Corna Scale”, la paziente fu controllata dagli infermieri e un altro paio di volte dal medico, passato per verificare i riflessi papillari, nonché ascoltare cuore e torace, sicché la condotta del deducente era stata esente da colpa; ai primi sintomi di scarsa collaborazione della paziente, il dottore aveva chiamato l’ambulanza segnalando la gravità del quadro clinico cerebro- vascolare; la relazione peritale officiosa aveva chiarito che anche immaginando l’accaduto in un ospedale fornito di TAC cerebrale, Neurochirurgia e Rianimazione, con diagnosi di ematoma sottodurale acuto emisferico destro, e un intervento entro 2 o 3 ore dal trauma, era “più probabile che non” che, se sopravvissuta, gli esiti neurologici sarebbero stati altamente invalidanti, sicché non era stato provato il nesso causale con la morte.

I Giudici Ermellini hanno effettivamente ritenuto fondate le doglianze proposte.

La Corte territoriale, in effetti, come riportato nel gravame, richiamava la consulenza tecnica officiosa disposta in prime cure e non integrata, a mente della quale anche immaginando l’accaduto in un ospedale fornito di TAC cerebrale, Neurochirurgia e Rianimazione, con diagnosi di ematoma sottodurale acuto emisferico destro, e un intervento entro 2 o 3 ore dal trauma, era “”più probabile che non” che, per la paziente, “se sopravvissuta, gli esiti neurologici sarebbero stati comunque altamente invalidanti”, osservando che, pertanto, si aveva la riprova che “nel progressivo affiancamento delle cause che portarono al decesso della paziente si inseriva anche il comportamento omissivo del sanitario”…”dato che ove lo stesso fosse stato più pronto, tempestivo e prudente, con l’invio immediato dell’anziana paziente…in un ospedale attrezzato le possibilità di sopravvivenza vi sarebbero state (anche se la paziente avrebbe comunque risentito di conseguenze ulteriormente invalidanti rispetto alle sue già deteriorate condizioni sanitarie…”; tutto ciò assumeva rilievo stante il luogo dov’era ricoverata la deceduta, carente, come accertato dal giudice di merito, di quelle strutture.

Nella cornice di questo accertamento di fatto, non era possibile comprendere se, con il suddetto criterio probabilistico, si poteva -e dunque si sarebbe potuto affermare ch- e la signora sarebbe o meno sopravvissuta: mancava dunque l’indagine fattuale sulla possibilità, o meno, di configurare correttamente le condotte omissive, verificate fattualmente e imputate, quali condizioni eziologiche del decesso, fatto, quest’ultimo, diverso dalla sopravvivenza in non meglio precisate condizioni invalidanti; in questi termini non vi era un omesso esame ma, come dedotto, piuttosto un errore sussuntivo e di utilizzo delle medesime regole eziologiche enunciate dal Collegio di merito e sottese al regime di cui agli artt. 1218 e 1223, cod. civ..

La redazione giuridica

Sei vittima di errore medico o infezione ospedaliera? Hai subito un grave danno fisico o la perdita di un familiare? Clicca qui

Leggi anche:

La responsabilità risarcitoria per mancato consenso informato

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui