Trib. Milano, Sez. I, sentenza n. 12113/2015.

«Chi si rivolge ad un chirurgo plastico lo fa per finalità esclusivamente estetiche e, dunque, per rimuovere un difetto e per raggiungere un determinato risultato: ne consegue che il risultato rappresentato dal miglioramento estetico dell’aspetto del paziente non è solo un motivo, ma entra a far parte del nucleo causale del contratto, determinandone la natura». 

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È quanto di recente affermato dal Tribunale di Milano, Sez. I, con la sentenza n. 12113, pubblicata il 29 ottobre 2015. La sentenza in commento, originata dal ricorso che una giovane donna proponeva avverso la clinica privata ove aveva luogo l’intervento di chirurgia estetica al quale si sottoponeva, rimanendone gravemente pregiudicata, è importante perché ribadisce alcuni punti in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, ormai costantemente accolti dalla giurisprudenza di legittimità.

L’attività del chirurgo estetico nella giurisprudenza ha subito una duplice distinzione: la prima, sul piano professionale, distinguendo l’attività chirurgica estetica da quella usualmente clinica, la seconda, sul tipo di obbligazione contrattuale e sui criteri di imputazione della responsabilità.

La prestazione obbligatoria del medico estetico, infatti, per taluni aspetti, sembrerebbe comportare non soltanto una diligente osservanza del comportamento pattuito, ma anche il diretto ed effettivo soddisfacimento dell’interesse creditorio, assunto come contenuto essenziale ed irriducibile della prestazione: in altri termini l’adempimento dell’obbligazione verrebbe a coincidere ed identificarsi con la piena realizzazione dello scopo perseguito dal paziente (il miglioramento dell’aspetto estetico), indipendentemente dalla diligenza spiegata dal medico estetico per tentare di conseguire il risultato prefissato.

Di regola, peraltro, le obbligazioni inerenti l’esercizio di una attività professionale sono obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato considerato, ma non anche al suo conseguimento. Diversamente accade in materia di attività medica inerente al settore della chirurgia estetica. A spiegarcelo è proprio il Tribunale di Milano con la sentenza in commento.

Onere della prova. In primo luogo si afferma che “in tema di responsabilità civile nell’ambito dell’attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del “contatto”) e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del “più probabile che non”, restando a carico dell’obbligato sia esso il sanitario o la struttura la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 975 del 16/0 1/2009).

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Più di recente, la Suprema Corte ha rilevato come “In tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente per danni derivanti dall’esercizio di attività di carattere sanitario, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare o, che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato il suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno” (Cass. 15993/2011).

Natura e causa della obbligazioneCon particolare riferimento alla chirurgia estetica, (cfr. sul punto Cass. 10014/1994 che propende per la qualificazione come obbligazione di risultato e Cass. 12253/1997 che qualifica l’obbligazione del chirurgo estetico come obbligazione di mezzi), è indubbio che chi si rivolge ad un chirurgo plastico lo fa per finalità spesso esclusivamente estetiche e, dunque, per rimuovere un difetto, e per raggiungere un determinato risultato, e non per curare una malattia. Ne consegue che il risultato rappresentato dal miglioramento estetico dell’aspetto del paziente non è solo un motivo, ma entra a far parte del nucleo causale del contratto, e ne determina la natura.

La casa di cura, pertanto, con l’accettazione della paziente ai fini del ricovero per l’intervento programmato, ha concluso con l’attrice un contratto atipico di spedalità e di assistenza sanitaria, da cui conseguono obblighi non solo “lato sensu” alberghieri ma altresì di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze.

«Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e puo’ conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto» (Cass. n. 13953/2007; anche Cass. n. 1620/2012).

Responsabilità della struttura sanitaria per il fatto del medico. La responsabilità della struttura sanitaria (pubblica o privata che sia), sussiste sia in relazione a propri fatti d’inadempimento (ad esempio in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero), sia per quanto concerne il comportamento dei medici, trovando applicazione la regola posta dall’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle sue dipendenze.

Si tratta – giuridicamente – della responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto che, in realtà, prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato del medico con la struttura (pubblica o privata) sanitaria, assumendo, invece, fondamentale rilevanza la circostanza che dell’opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell’attuazione del rapporto obbligatorio.

L’ente risponde, infatti, di tutte le ingerenze dannose che al medico sono rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al terzo danneggiato, e cioè dei danni che lo stesso può arrecare in ragione di quel particolare contatto cui si espone nei suoi confronti il paziente nell’attuazione del rapporto con la struttura sanitaria. Responsabilità che trova fondamento non già nella colpa (nella scelta degli ausiliari o nella vigilanza) bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione.

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Quantificazione del danno. In merito, poi, alla quantificazione del danno, la pronuncia in commento dispone che il danno biologico derivante dall’accertata responsabilità medica venga liquidato, in conformità a quanto previsto dall’art. 3, co. 3, legge n. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi), sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni, così ponendosi in contrasto con alcune decisioni di merito che continuano ad applicare le “più generose” tabelle milanesi.

In particolare, secondo il tribunale lombardo, l’applicazione della legge Balduzzi a fatti già verificatesi al momento della sua entrata in vigore – come nella fattispecie – non inciderebbe negativamente sul fatto generatore del diritto alla prestazione, limitandosi a fissare nuovi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale. Ciò nonostante, al fine di risarcire integralmente il danno non patrimoniale sofferto dall’attrice, il tribunale ritiene necessario procedere alla c.d. personalizzazione del danno biologico in relazione a quei profili riconducibili al danno morale.

Come, inoltre, affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. 10072/2010): «se non basta la mera eventualità di un pregiudizio futuro per giustificare condanna al risarcimento, per dirlo immediatamente risarcibile è invece sufficiente la fondata attendibilità che esso si verifichi secondo la normalità e la regolarità dello sviluppo causale (ex multis, Cass., nn. 1637/2000, 1336/1999, 495/1987, 2302/1965)” e che “la rilevante probabilità di conseguenze pregiudizievoli è configurabile come danno futuro immediatamente risarcibile quante volte l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto».

Avv. Sabrina Caporale

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