La vittima, in sella alla propria bicicletta da corsa SAB, è stata travolta dall’autocarro Iveco, riportando lesioni che ne avevano causato il decesso.
Secondo la figlia, la moglie e la sorella della vittima la responsabilità nella causazione del sinistro era da attribuirsi integralmente al camion che, a causa della eccessiva velocità mantenuta, aveva perso il controllo, andando ad invadere l’opposta corsia di marcia, sulla quale procedeva il ciclista.
Ritengono insufficiente la somma versata dall’assicurazione del camion e deducono l’insorgenza di un danno di natura neuropsichiatrica in capo alla coniuge, nonché di un danno patrimoniale della coniuge e della figlia, correlato anche alla perdita della quota di reddito che era stata ad esse destinata.
La vicenda giudiziaria
Nel corso del giudizio l’assicurazione corrispondeva alla coniuge ulteriori €180.000 e alla figlia ulteriori €140.000. Il Tribunale di Brescia accertava la responsabilità esclusiva del camionista.
Accertava che la sussistenza di un danno da perdita di rapporto parentale a favore di tutte e tre le parti attrici, nonché, in favore della sola coniuge la sussistenza di un danno non patrimoniale da lesione dell’integrità psicofisica e di un danno patrimoniale da lucro cessante. Quindi, dato atto che l’assicurazione aveva già versato: a favore della coniuge, la somma di €347.635,50; a favore della figlia la somma di €272.760 e a favore della sorella la somma di €43.880,00. Condannava i convenuti, in solido tra loro, a corrispondere a favore della moglie del defunto la somma di €78.476,06, a titolo di risarcimento danno patrimoniale.
La decisione viene impugnata per incongruità, iniquità, insufficienza e contraddittorietà della motivazione in punto liquidazione del danno patrimoniale in favore di moglie e figlia e incongruità della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale della sorella del defunto.
La Corte d’appello respinge l’appello proposto dalla coniuge e dalla figlia; accoglie quello della sorella liquidandole €80.000.
La moglie e la sorella della vittima si rivolgono alla Corte di Cassazione dove la prima lamenta la errata liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante non essendo stato cumulato reddito del de cuius derivante dal perseguimento dell’attività lavorativa libero professionale sino al 65 anno di età e il reddito pensionistico sino alla presumibile sopravvivenza.
Le doglianze sono parzialmente fondate.
L’intervento della Cassazione
Nel giudizio di merito è rimasto provato che il ciclista – dopo il pensionamento avvenuto all’età di 56 anni per raggiunta anzianità contributiva – stava per essere reclutato come consulente esterno dalla propria ex datrice di lavoro. Ebbene, oggetto della domanda risarcitoria della moglie è il riconoscimento delle utilità patrimoniali che il de cuius avrebbe a lei devoluto negli anni della residua vita attiva, da calcolarsi sul suo reddito, che dal 2008 avrebbe potuto godere sia del trattamento pensionistico di anzianità che del reddito da attività libero professionale (che l’attività di consulenza esterna gli avrebbe presumibilmente assicurato fino al compimento del 65 anno di età).
Non è dato comprendere se, e perché, la liquidazione fatta dalla Corte d’appello abbia tenuto conto del reddito pensionistico e perché è stato limitato a soli 4 anni il periodo in cui la moglie avrebbe beneficiato dei contributi economici del marito.
La liquidazione del danno non patrimoniale
Venendo, ora, alla liquidazione del danno non patrimoniale in favore della sorella, viene censurato che la Corte di secondo grado, dopo aver fatto riferimento alle tabelle romane, ha affermato: “in applicazione del suddetto principio, tenuto conto dell’età della vittima, di quella della sorella, della non convivenza e del fatto che la sorella vivesse da sola in quanto vedova, merita di essere accolta la richiesta di riconoscimento di un danno da perdita del rapporto parentale così come richiesto, che si liquida in moneta rivalutata in €80.000,00”, laddove invece andava liquidato l’importo di €147.000,00.
La censura è fondata in quanto, dopo essere stato precisato il riferimento alle tabelle romane, la motivazione resa sulla quantificazione del danno in €80.000,00 è del tutto assertoria perché, in concreto, non indica in quali termini si siano applicate le richiamate tabelle romane.
Conclusivamente, la sentenza della Corte di Brescia viene cassata in relazione alle censure accolte (Corte di Cassazione, III civile, 21 novembre 2024, n. 30085).
Avv. Emanuela Foligno