La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla determinazione del compenso globale del Collegio peritale nella materia della responsabilità sanitaria.

E’ illegittimo il divieto dell’aumento del 40% per ciascuno dei componenti del Collegio peritale nella materia della responsabilità sanitaria, in tal senso Corte costituzionale, Sentenza 20 maggio 2021, n. 102.

Con ordinanza del 4 maggio 2020, il Tribunale di Verona, nel corso di un giudizio di risarcimento dei danni per responsabilità sanitaria, ove veniva conferito n incarico di CTU ad un collegio composto da un medico legale e da un infettivologo, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 4, della legge 8 marzo 2017, n. 24, nella parte in cui “vieta in maniera drastica l’aumento, nella misura del 40 per cento, del compenso spettante al singolo, per ciascuno degli altri componenti del collegio, che è invece previsto, dall’art. 53 d.P.R. 115/2002, per la quasi totalità degli incarichi collegiali”.

Il Giudice rimettente evidenzia che – ove si fosse potuto applicare l’aumento di cui all’art. 53 del DPR 115/2002 al Collegio che ha svolto l’incarico, si sarebbe potuto liquidare un importo globale pari ad euro 3.113,50, mentre, in ragione del divieto stabilito dalla norma censurata, la misura del compenso non avrebbe potuto superare la soglia di euro 2.418,93.

Argomenta, inoltre, il Tribunale di Verona, che, ai sensi dell’art. 2, comma 5, del decreto del Ministro della Salute 19 luglio 2016, n. 165 pur essendo previsto, in caso di CTU che coinvolga una pluralità di medici, il compenso sia unico a fronte dell’incarico collegiale conferito, l’organo giurisdizionale può aumentarlo fino al doppio. In questo caso il legislatore avrebbe, pertanto, riconosciuto la facoltà al magistrato di liquidare un onorario maggiore di quello spettante al singolo consulente, sul presupposto che la perizia collegiale giustifichi un aumento dell’onorario.

La Corte passa al vaglio l’Ordinanza di rimessione che prospetta la violazione dell’art. 3 Cost., per l’irragionevole disparità di trattamento che si determinerebbe nella liquidazione dei compensi di un collegio peritale nei giudizi di responsabilità medica, a fronte di quella spettante ai collegi composti da esperti di discipline diverse da quella medica, e rileva che ne sussistono le condizioni di ammissibilità.

Nel merito, viene svolta una attenta disamina del quadro normativo ricomprendente la disposizione censurata.

“In termini generali, l’art. 191, secondo comma, del codice di procedura civile prevede che il giudice possa nominare più di un consulente «soltanto in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo dispone». Analogamente, l’art. 221, secondo comma, del codice di procedura penale ammette l’incarico peritale collegiale, stabilendo che il giudice penale possa affidare «l’espletamento della perizia a più persone quando le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità ovvero richiedono distinte conoscenze in differenti discipline. In tali situazioni il principio di collegialità esige una partecipazione congiunta degli esperti alle indagini e alle valutazioni peritali in vista dell’elaborazione di conclusioni che, anche se raggiunte attraverso la ripartizione di particolari attività in base alle specifiche competenze di ciascuno, risultino condivise e compendiate in un unico elaborato”.

“Per quanto concerne la liquidazione del compenso, l’incarico plurimo è contemplato dall’art. 53 del d.P.R. n. 115 del 2002, il quale, sostanzialmente riproducendo le disposizioni dell’abrogato art. 6 della legge 8 luglio 1980, n. 319, stabilisce che, allorché l’incarico sia stato conferito ad un collegio di ausiliari, «il compenso globale è determinato sulla base di quello spettante al singolo, aumentato del quaranta per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio, a meno che il magistrato dispone che ognuno degli incaricati deve svolgere personalmente e per intero l’incarico affidatogli”.

Con riferimento alla CTU nei giudizi civili e penali in materia di responsabilità medica, la legge Gelli-Bianco ha introdotto una innovazione, laddove stabilisce che “ nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare, scelti tra gli iscritti negli albi di cui ai commi 2 e 3, non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi e che i consulenti tecnici d’ufficio da nominare nell’ambito del procedimento di cui all’articolo 8, comma 1, siano in possesso di adeguate e comprovate competenze nell’ambito della conciliazione acquisite anche mediante specifici percorsi formativi”.

Tale norma, dunque, ha introdotto il principio della necessaria collegialità.

Tuttavia, la medesima legge dispone che “nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria l’incarico è conferito al collegio e, nella determinazione del compenso globale, non si applica l’aumento del 40 per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall’articolo 53 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.

Ergo, la questione di illegittimità costituzionale è fondata in quanto la disposizione posta a censura è irragionevole e non coerente con la ratio della norma.

Osserva il Supremo Organo che a fronte dell’introduzione, nei procedimenti civili e penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, del principio di necessaria collegialità non vi è spazio per giustificare la scelta di determinare l’onorario globale spettante al collegio in misura pari a quella che verrebbe riconosciuta in caso di conferimento di incarico al singolo.

Evidentemente ne consegue che il compenso liquidato al collegio dal Giudice deve essere suddiviso in parti uguali tra i membri del collegio, e ciò significa che a ciascun componente spetta un onorario inferiore.

Ed ancora, è irragionevole la riduzione progressiva dell’onorario spettante a ciascuno dei consulenti indotta dall’aumento del numero dei componenti incaricati dell’espletamento delle operazioni peritali.

In altri termini, anche se si ragionasse nel senso di alleviare l’aggravio economico che, in forza della collegialità necessaria, verrebbe a ricadere sugli interessati già onerati dei costi della eventuale consulenza di parte, non può valere a legittimare la introduzione di una irragionevole soglia di contenimento del quantum dell’onorario, non potendo il soddisfacimento di un’esigenza siffatta tradursi in un ingiustificato sacrificio per i consulenti incaricati.

Il limite imposto dalla disposizione denunciata comporta una decurtazione che incide sull’adeguatezza del compenso rispetto all’opera prestata e sulla conformità dello stesso alle regole generali sulla liquidazione dei compensi affidati ad un collegio di periti.

Il CTU riceve un incarico e tale incarico deve essere compensato attraverso un sistema proporzionato che tenga in considerazione l’entità e la complessità dell’opera prestata. Il tutto in maniera equilibrata tra l’interesse pubblico che il procedimento giudiziario persegue e le aspettative economiche del Professionista.

Proprio in tale esigenza è rinvenibile la ratio dell’incremento percentuale contemplato per gli incarichi collegiali di cui all’art. 53 DPR 115/2002, in quanto il Giudice ricorre all’espletamento di Consulenza d’Ufficio quando la controversia esige competenze tecnico-scientifiche-mediche tali da rendere opportuna la condivisione della responsabilità della valutazione peritale tra più professionisti.

Nel campo della responsabilità medica, osserva la Corte, la necessaria collegialità scaturisce da una valutazione del legislatore circa la delicatezza delle indagini e l’esigenza di perseguire una verifica della responsabilità e della quantificazione dei danni, puntuale ed esaustiva.

Ed ancora, prosegue la Corte, è contraddittorio che, da un lato, si esiga che in tale campo sia favorito l’intervento di Consulenti specializzati ed esperti e, dall’altro, si sopprima il meccanismo che prevede un incremento del compenso che tale complessità vale a controbilanciare.

Meccanismo, gioco forza, destinato ad evitare una decurtazione dell’importo che sarebbe spettato in caso di incarico al singolo.

Tale limitazione genera effetti contrastanti con la ratio che la disposizione si prefigge di raggiungere.

La Suprema Corte aveva già dato atto (192/2015) che occorre considerare la possibilità che tale disposizione favorisca l’allontanamento dal circuito giudiziario di Consulenti validi e di grande esperienza che giungono ad essere demotivati dalla incongruenza degli onorari, rispetto alla qualità e quantità dell’impegno richiesto.

Oltre a tutte le ragioni indicate, la Corte evidenzia nettamente che la irragionevolezza della norma censurata si ravvisa anche nel divieto di aumento dei compensi su tariffe, che già dall’origine sono inferiori ai valori di mercato, mai aggiornate attraverso l’adeguamento triennale prescritto dal DPR 115/2002.

Del resto, tale irragionevolezza è già stata evidenziata laddove i prevede la riduzione di 1/3 dei compensi spettanti all’ausiliario del magistrato nei procedimenti in cui sia stata disposta l’ammissione di una parte al patrocinio a spese dello Stato, ciò ovviamente per contenere la spesa erariale.

In questa prospettiva, l’art. 106-bis TU spese di giustizia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi spettanti all’ausiliario del magistrato sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002», in relazione alla variazione, accertata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. E la recente sentenza n. 89 del 2020 ha rilevato una «deplorevole e reiterata inadempienza dell’Amministrazione» nell’applicazione del richiamato art. 54.

Infine, la disposizione censurata contrasta anche con il principio di uguaglianza, poichè introduce una disparità di trattamento rispetto alla disciplina generale sulla determinazione degli onorari per gli incarichi peritali collegiali.

Confrontando l’art. 53 del TU spese giustizia (diposizione il cui contenuto precettivo è espressamente derogato dalla norma censurata) emerge che in tutti gli altri campi in cui la complessità dell’indagine richiede che l’incarico sia affidato all’opera congiunta di più esperti, anche se si tratti di un collegio medico, il compenso è maggiorato, rispetto a quello che sarebbe spettato al singolo consulente, nella misura del quaranta per cento.

Ergo, quando l’incarico collegiale riguarda materie diverse da quelle attinenti alla responsabilità medica, il compenso globale viene incrementato in ragione della partecipazione alle operazioni peritali di più consulenti, mentre l’aumento dell’onorario è precluso in via generale con riguardo ai procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, nonostante il carattere primario degli interessi coinvolti e la complessità tecnica che di norma caratterizza l’attività di indagine.

In conclusione la Corte Costituzionale, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 4, della legge n. 24 del 2017 limitatamente alle parole: «e, nella determinazione del compenso globale, non si applica l’aumento del 40 per cento per ciascuno degli altri componenti del collegio previsto dall’articolo 53 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115».

Avv. Emanuela Foligno

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