Comportamento fraudolento della Banca e risarcimento del danno

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La vicenda è intrapresa nei confronti di Banca Monte dei Paschi da parte dei 3 eredi del titolare del rapporto bancario che lamentano la mancata consegna della documentazione da parte dell’istituto.

Il Tribunale condannava la Banca al pagamento, a titolo restitutorio, della somma di 1.235,57 euro in favore di una erede e della somma di 1.902,57 euro in favore della seconda erede, regolando le spese di lite. Con sentenza del 9 luglio 2020 la Corte d’appello di Firenze ha respinto il gravame interposto dalle 3 donne. Anche la Corte di Cassazione rigetta dichiarando inammissibile l’impugnazione (Corte di Cassazione, I civile, ordinanza 11 settembre 2024, n. 24406).

I fatti

Le attrici, assumendo essere eredi ab intestato, hanno convenuto in giudizio Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. sostenendo che il proprio dante causa, ricco imprenditore del settore tessile, avrebbe posseduto un patrimonio liquido, depositato presso la banca, con la quale intratteneva una pluralità di rapporti, ammontante a circa 30 miliardi di Lire, mentre la banca non aveva ottemperato alla richiesta, avanzata ai sensi dell’articolo 119 del testo unico bancario, di consegna della documentazione bancaria concernente la totalità di detti rapporti alla morte del de cuius ed in relazione all’arco temporale del decennio antecedente il suo decesso.

Di qui le attrici hanno proposto una complessa domanda volta all’ottenimento della condanna della banca al pagamento di cinque milioni di euro “pari agli importi di denaro giacenti nei conti correnti, libretti e titoli intestati e/o cointestati al de cuius al momento del decesso e di cui la convenuta aveva sottaciuto l’esistenza, e che sono stati ritirati successivamente e/o che sono giacenti a tutt’ora presso l’Istituto bancario”.
Chiedono inoltre il al pagamento dell’importo di due milioni di euro a titolo di “restituzione degli importi usciti dai conti intestati e/o cointestati, titoli e quanto altro al de cuius sulla base di documentazione non sottoscritta dal de cuius e/o disposizioni date dallo stesso”; al pagamento dell’importo di altri due milioni di euro “per l’impossibilità per le attrici di agire nei confronti del coerede per la lesione della quota di legittima e nei confronti dei terzi cointestatari”; al pagamento dell’importo di ulteriori 2 milioni di euro “per violazione delle norme previste dall’art. 119 … e per gli inadempimenti contrattuali tutti”; al pagamento, ancora, di 500.000,00 euro per danni non patrimoniali.

La vicenda giudiziaria

Il Tribunale ha stabilito, in conformità alla CTU, che i rapporti rilevanti ai fini della decisione erano esclusivamente quelli pendenti al momento della morte dell’intestatario, e che le attrici non avevano “provato che la mancanza di materialità di tali rapporti”, ossia di 4 dossier titoli, “fosse il frutto di una condotta fraudolenta da parte della banca in danno di tutte le eredi”, non essendovi prova “di eventuali condotte anomale tenute dall’istituto di credito, né sono state individuate le operazioni bancarie contestate”, tanto più che “non vi è stata alcuna allegazione che abbia consentito di determinare, anche solo in termini approssimativi, la quota di legittima spettante a ciascun erede, la possibile lesione e quindi il diritto che si assume essere stato leso dall’altrui condotta illecita”.

Riguardo la lamentata violazione dell’art. 119TUB, violazione accertata, essendo stata la documentazione richiesta nel 2001 fornita “nella sua interezza” solo nel 2007, che una transazione intercorsa tra le parti in ordine al rimborso delle spese legali sostenute dalle odierne ricorrenti «non preclude in astratto la possibilità di risarcire in questa sede ulteriori conseguenze dannose… ma impone all’attore di dar prova e di individuare e provare un pregiudizio ulteriore, onere che in concreto non è stato assolto”.

In fin dei conti, a fronte della domanda di condanna della banca al pagamento di 11 milioni e mezzo di euro, le attrici hanno vinto per l’importo indicato in precedenza, di poco superiore a 3000 euro, concernente la giacenza di un conto corrente ed un ulteriore dossier.

L’intervento della Cassazione

Anche la Corte di appello respinge la tesi delle 3 eredi affermando che “avrebbero dovuto, per consentire a questo collegio di esaminare nel merito l’impugnazione, indicare specificamente quali operazioni e movimentazioni ritenevano essere anomale e fraudolente in danno loro, indicare le fonti di prova e gli atti difensivi del processo di primo grado nel quale erano state indicate le une e le altre”.

Il ricorso per cassazione è riferito al solo “Capo della sentenza di appello in cui è stato dichiarato inammissibile il motivo di impugnazione relativo alla domanda risarcitoria per violazione dell’art. 119 TUB, domanda peraltro certamente fondata alla luce di quanto rilevato sia nella sentenza di primo grado, che in quella di appello: evidentemente non si può imputare al correntista un difetto di allegazione e prova e poi, allo stesso tempo, mandare esente da responsabilità la Banca che, in violazione di un preciso obbligo di legge, ha reso impossibile il puntuale assolvimento di tale onere”.

La S.C. richiama la decisione a SS.UU. 27199/2017 la quale richiede che il motivo d’appello deve consentire al Giudice dell’impugnazione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, enunciando il perché la decisione del primo Giudice sia errata.

In tale ottica, la giurisprudenza ha enunciato il principio secondo cui il requisito della specificità dei motivi di cui all’art. 342 c.p.c. postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono.

Il caso in esame è un caso paradigmatico di inammissibilità per difetto del requisito di specificità

In sintesi, il primo Giudice ha respinto la lamentata violazione dell’art. 119 TBU per mancanza di allegazione e di prova del danno: la transazione stipulata tra le parti, ha affermato il Tribunale, “non preclude in astratto la possibilità di risarcire in questa sede ulteriori conseguenze dannose… ma impone all’attore di dar prova e di individuare e provare un pregiudizio ulteriore, onere che in concreto non è stato assolto”.

A fronte di tale decisione le eredi hanno sostenuto di non aver potuto dedurre e provare il danno cagionato dalla condotta della Banca proprio in ragione di detta condotta, osservando in atto d’appello quanto segue: “se la Banca Toscana non ha fornito alle attrici la documentazione necessaria a ricostruire il patrimonio del de cuius, e quando l’ha fornita non l’ha data completamente ma solo parzialmente, come si può insistere nel dire che le stesse non hanno fornito prova della condotta fraudolenta? L’evidente responsabilità della banca, di cui il giudicante non può non avere contezza, viene riversato sulle attrici, mandando indenne la banca da ogni forma di risarcimento. È il caso di dire che oltre al danno, anche la beffa!”.

Il ricorso è inammissibile

Ebbene, quanto sopra non costituisce una critica puntuale e precisa indirizzata contro la ratio decidendi di primo grado a sostegno della decisione adottata: ratio decidendi riassumibile in ciò, che l’attore che agisce per il risarcimento del danno deve allegare e provare il danno. Al contrario, invece, le donne si sono limitate ad addurre un asserito impedimento materiale (asserito ma escluso dal Giudice di merito, perché il Tribunale ha espressamente affermato che la documentazione era stata infine “fornita nella sua interezza”), senza spiegare come il denunciato impedimento in facto, ove ne fosse stata dimostrata la sussistenza, potesse assumere rilievo al fine di rendere censurabile la affermazione del primo Giudice secondo cui il danno del quale era stato chiesto il risarcimento non era stato fatto oggetto di deduzione né tantomeno di prova.

Il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Avv. Emanuela Foligno

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