Con il commento alla sentenza Cass. Civ., sez. III, ord. n. 25244 del 19/09/2024 (Presidente: Travaglino Giacomo – Relatore: Marilena Gorgoni) intendiamo illustrare l’applicazione del principio generale che regola il regime delle spese processuali desumibile dagli artt. 91 e segg. c.p.c., nelle ipotesi di pluralità di parti, qualora si prospetti, come nella fattispecie, che l’attore risulti vittorioso nei confronti di una parte, ma soccombente rispetto ad un’altra, non ritenuta responsabile del fatto contestato.
I principi che regolano la materia
La norma a cui fare riferimento nella fattispecie è l’art. 91, comma 1, c.p.c., il quale recita: “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte“. Si ritiene, concordemente, che la soccombenza va riferita all’esito finale della lite. La condanna alle spese consiste in una pronuncia accessoria e consequenziale alla definizione del giudizio, che deve essere pronunciata anche se la parte vittoriosa non ne abbia fatto esplicita richiesta, essendo un obbligo da parte del giudice.
La condanna alle spese di lite è fondata sulla soccombenza, perché la necessità di ricorrere al giudice non deve tornare a danno di chi ha ragione, in quanto la parte vittoriosa conseguirebbe un diritto non integro. Pertanto, la condanna alle spese non costituisce una sanzione per la parte soccombente ma rappresenta, piuttosto la logica conseguenza della soccombenza stessa.
Questi principi generali vanno poi rapportati ai casi concreti, e soffrono diverse eccezioni, la cui più importante è quella della compensazione di cui all’art. 92 c.p.c., tema non oggetto della presente breve trattazione, perché assai complesso.
La questione in esame costituisce un’applicazione concreta della regula juris, che promana dall’art. 91, comma 1, c.p.c.
Il caso oggetto di causa
Un’impresa effettuava richiesta di contributo pubblico per acquisto di beni aziendali, in virtù di un bando regionale, la cui procedura prevedeva l’intervento di un istituto finanziario (Banco di Napoli Spa) e di una associazione privata di categoria (Artigiancassa Spa), per l’istruttoria della pratica. Il contributo, prima assegnato, veniva successivamente revocato per una serie di inadempimenti, che l’impresa imputò in via solidale agli enti suddetti, convenendoli in giudizio con richiesta di risarcimento danni.
La domanda veniva accolta in primo grado con condanna alle spese di lite. In appello la decisione veniva in parte riformata, con l’annullamento della condanna nei confronti della Artigiancassa Spa, alla quale veniva riconosciuta la condanna alle spese a carico di parte attrice. Per il resto veniva confermata la condanna, anche per le spese, nei confronti del Banco di Napoli Spa.
La soluzione adottata dalla Cassazione
L’impresa ricorreva per cassazione denunziando, ai sensi dell’art. 360, comma 1, la violazione o falsa applicazione dell’art. 92, comma 1, in relazione al fatto che era stata condannata alle spese di lite in favore della Artigiancassa Spa, nonostante l’accoglimento della domanda originaria. In particolare, la ricorrente poneva in evidenza di come nel giudizio di merito fossero state accertate e riconosciute specifiche violazioni procedurali in capo alla associazione di categoria e, pertanto, le spese in relazione a tale parte processuale avrebbero dovuto essere, quantomeno, compensante.
La S. C. ha ravvisato che in effetti la Corte d’Appello, pur avendo riscontrato una serie di inadempienze della Artigiancassa Spa, aveva escluso ogni incidenza di detta condotta nella causazione della perdita del contributo e, quindi, dei danni reclamati, riconoscendo come unico responsabile il Banco di Napoli.
La Corte ha ritenuto non rilevanti le deduzioni difensive dell’impresa, che insistevano nel fatto di non aver considerato unitariamente il caso ai fini dell’accertamento della “soccombenza”, in relazione al carattere “plurisoggettivo” della situazione sostanziale, tale da qualificarsi come un litisconsorzio necessario.
Invero, la pretesa “unità” dei rapporti sostenuta dalla ricorrente non poteva essere riconosciuta in quanto gli atti di causa hanno del tutto escluso il nesso causale tra condotta di Artigiancassa Spa e il danno evento – conseguenza. Ragionare diversamente, argomenta la S.C., introdurrebbe “una responsabilità risarcitoria al di fuori di un collegamento eziologico tra la condotta del soggetto agente ed il danno cagionato, superando i limiti strutturali dell’illecito civile e sconfinando nella responsabilità stocastica“.
Conclusioni
Un pronunciamento logico, chiaro e sintetico che va condiviso, da un punto di vista formale, ma anche sostanziale. In effetti, l’originaria domanda era stata proposta aderendo a ragioni di opportunità pratiche difensive, che in un quadro non chiaro in relazione al concorso colposo delle controparti, consigliava di convenirle in giudizio entrambi, e rimettere all’istruttoria l’accertamento specifico.
In relazione a ciò, il messaggio che proviene dalla Cassazione è quello di rispettare, da parte di chi intraprende un giudizio o vi resiste, il senso di responsabilità e attenta valutazione della fattispecie, onde evitare di dar origine a contenziosi con pluralità di parti, che complichino il regolare sviluppo processuale, con ulteriori problematiche. E ciò anche in considerazione del fatto che le norme di rito vigenti, risalenti nel tempo, vennero elaborate per un processo che si svolgeva tra solo due parti: attore e convenuto, che oggi – per l’evoluzione della società e della sua economia, caratterizzate dalla complessità dei rapporti giuridici plurisoggettivi – non sono più adeguate.
La condanna alle spese di lite non ha natura sanzionatoria o risarcitoria
La decisione applica il principio che si è andando affermando da ultimo, per il quale la condanna alle spese di lite non ha natura sanzionatoria o risarcitoria, ma è una regola di elementare razionalità, in base alla quale l’onere delle spese grava su chi ha “causato” il processo. Più specificatamente essa si fonda sul “c.d. principio di causalità nell’insorgere della lite giudiziaria e della necessità di ricorrere al giudice per ottenere il riconoscimento della prestazione reclamata” (tra le ultime: Cass. Civ. Sez. Lavoro – ord. n. 14036 del 21/05/2024).
La condanna alle spese di lite presuppone che sia addebitata a chi “ha azionato una pretesa rivelatasi infondata, ovvero a quella che ha resistito ad una pretesa rivelatasi fondata” (Cass. civ., sez. III, 9 aprile 2001, n. 5262, sebbene in relazione al caso di un terzo chiamato in causa, adattabile alla fattispecie) e, dunque, legittima pronunciamenti come quello esaminato.
Nel caso di specie al rigetto del ricorso la Cassazione, oltre alle spese ordinarie di lite, ha “inflitto” una doppia condanna per lite temeraria ex art. 96, terzo e quarto comma c.p.c.
Tale statuizione è conforme a diritto in quanto con il rigetto del ricorso sono stati accolti i motivi di inammissibilità ex art. 380-bis, ultimo comma c.p.c., della proposta del P.G. di definizione anticipata del giudizio di cassazione.
Volontà della Cassazione di sanzionare la palese infondatezza e inammissibilità dei motivi di ricorso
In effetti, oltre l’aspetto formale, da un punto di vista sostanziale, emerge la volontà della Cassazione di sanzionare la palese infondatezza e inammissibilità dei motivi di ricorso, limitati soltanto ad una censura che rideterminasse la statuizione sulle spese. L’errore principale in cui è incorso il ricorrente è quello di non aver impugnato espressamente la parte della sentenza di appello che ha escluso la responsabilità dell’Artigiancassa Spa, e quindi, la soccombenza di questa parte, condizione dirimente una diversa statuizione sulle spese processuali.
Ma anche se ciò fosse avvenuto, tuttavia, emerge chiaramente che non vi fossero ragioni apprezzabili di un accoglimento nel merito.
Si evidenzia, pure, come l’istituto del regolamento delle spese, anche alla luce della Riforma Cartabia, in combinazione del potere sanzionatorio per lite temeraria, sia diventato uno strumento deflattivo del contenzioso avente carattere di grave e palese infondatezza.
Avv. Luigi Di Prisco