La mancata eliminazione delle barriere architettoniche, ostative all’accesso di persone disabili agli uffici del Comune e alla sala consiliare, costituisce discriminazione indiretta: legittima la condanna dell’ente al risarcimento del danno al consigliere disabile

Un Comune aveva proposto ricorso per cassazione contro la decisione della Corte di appello di Ancona che aveva ritenuto che la mancata eliminazione delle barriere architettoniche, ostative all’accesso di persone disabili agli uffici e alla sala consiliare dell’ente, costituisse discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 2, comma 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67.

Il giudizio era stato instaurato su azione di una consigliera comunale la quale lamentava che, in assenza di un ascensore per disabili o di un servoscala, era costretta a farsi “guidare” e “trasportare” dal personale comunale lungo due rampe di scale, per essere messa su una specie di “trattorino” o “montascale”.

Tale circostanza era confermata dal fatto che il Comune aveva deciso di spostare le riunioni del consiglio nella palestra della scuola elementare, proprio per consentire la più agevole partecipazione dell’interessata, salvo poi – una volta preso atto delle sue dimissioni da consigliere – tornare a svolgere le riunioni nella sede istituzionale.

L’attrice aveva chiesto, pertanto, la cessazione immediata del comportamento discriminatorio e la condanna dell’ente sia alla pronta realizzazione di un ascensore e/o di un servoscala, o comunque alla realizzazione delle opere ritenute più idonee, sia al risarcimento del danno, da liquidarsi in via equitativa.

Ebbene, all’esito del giudizio di secondo grado la corte d’appello accoglieva la domanda attorea ritenendo che la fattispecie descritta integrasse una ipotesi di cd. “discriminazione indiretta” secondo la nozione di cui alla legge n. 67 del 2006 che prescinde da ogni volontà o intenzione discriminatoria del soggetto agente. Peraltro, per i giudici della corte di merito, la presenza del “trattorino” non poteva certo ritenersi una soluzione adeguata – fino alla (tardiva) realizzazione dell’ascensore per disabili – a consentire il superamento della barriera architettonica.

Di qui pertanto, la condanna del comune al solo risarcimento del danno, essendo nel frattempo cessata la condotta discriminatoria, attraverso la realizzazione dell’ascensore per disabili.

La pronuncia della Cassazione

La Corte di Cassazione (Terza Sezione Civile, sentenza n. 3691/2020) ha confermato la decisione impugnata, sottolineando in primo luogo la natura precettiva e non programmatica della disciplina volta al superamento delle barriere architettoniche, evidenziando che la disciplina relativa al superamento delle barriere architettoniche è stata prevista proprio allo scopo di “facilitare la vita di relazione delle persone disabili”; tali principi “rispondono all’esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest’ultima nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica (Corte cost. n. 251/2008).

Il Supremo Collegio ha poi, ribadito che il riconoscimento del carattere discriminatorio di “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” in ogni caso “presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dall’art. 3, comma 3 della legge n. 67 del 2006”. Ad ogni modo, le censure dell’ente locale sono state ritenute prive di fondamento nonchè inammissibili perché volte ad ottenere una diversa valutazione dei fatti già accertati dalla corte territoriale, costituente operazione non consentita in sede di legittimità.

Il risarcimento del danno

Confermata anche la valutazione della corte marchigiana in ordine alla quantificazione del danno lamentato, che i giudici dell’appello hanno quantificato nella somma complessiva di 3.200 euro, più 200 euro per esborsi e spese forfetarie, “tenuto conto della destinazione d’uso del fabbricato interessato, della qualifica rivestita all’epoca dall’istante, nonché del periodo di tempo per il quale si era protratta la situazione di inadempienza dell’ente territoriale”.

Avv. Sabrina Caporale

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