Respinto il ricorso di un detenuto che aveva richiesto di essere risarcito per le condizioni detentive patite presso alcuni istituti penitenziari

Aveva presentato reclamo davanti al Tribunale di sorveglianza al fine di ottenere i rimedi risarcitori per le condizioni detentive patite in violazione dell’art. 3 Cedu nel periodo dal 14 maggio 2014 al 7 luglio 2018 presso le Case circondariali di Palmi e di Catanzaro. Il detenuto, in espiazione di pena con scadenza nel maggio 2023, si era visto respingere la propria istanza.

Secondo il Collegio giudicante, infatti, il reclamante aveva avuto a disposizione uno spazio individuale nella cella di detenzione superiore a 3 mq, alla luce dei calcoli effettuati secondo i parametri della giurisprudenza della Corte Edu, e quindi con detrazione dello spazio riservato ai bagno.

Inoltre, anche scomputando lo spazio destinato agli arredi che costituiscono ingombro fisso a terra e non facilmente amovibile (letti e armadi) lo spazio a sua disposizione non era mai stato inferiore a tre metri quadri. Un’eccezione si era verificata nel carcere di Catanzaro, ove lo spazio a sua disposizione era stato di poco inferiore ai 3 mq (mq 2,9), ma per brevi periodi; in ogni caso questo sacrificio era stato compensato dal consistente numero di ore quotidiane da poter trascorrere fuori dalla cella e dall’offerta trattamentale di corsi scolastici, dall’opportunità di lavoro, dall’accesso in biblioteca, dalla possibilità di uso del campo sportivo e di impegno in laboratori e progetti-teatro.

Il Tribunale di sorveglianza sottolineava, quanto al metodo di calcolo degli spazi di detenzione, che le indicazioni della giurisprudenza sovranazionale non sono nel senso di escludere dal computo gli spazi occupati da qualsiasi arredo.

La Corte Edu, infatti, è ferma nel sostenere che nel calcolo della soglia dei 3 mq non debba essere detratto lo spazio occupato dai mobili, senza alcuna differenza tra i tipi di mobili, fissi o meno. Quindi il principio è che va escluso dal computo lo spazio occupato dal bagno e che la rimanente superficie va calcolata al lordo degli arredi.

Nell’impugnare l’ordinanza il detenuto eccepiva che, invece, il Tribunale di sorveglianza avesse fatto proprio un criterio di calcolo dello spazio minimo vitale in contrasto con la giurisprudenza della Corte Edu e ancor più con quella della Corte di cassazione.

A suo giudizio, ìl criterio di computo corretto è quello che scorpora gli spazi occupati, oltre che dal bagno, dagli arredi fissi (armadietti, letti a castello, ecc.), che costituiscono un sicuro impedimento al movimento del detenuto.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 14163/2020 ha ritenuto di non aderire alla doglianza proposta, respingendo il ricorso in quanto infondato.

Le critiche mosse dal ricorrente alle affermazioni circa il criterio di computo dello spazio minimo vitale all’interno delle celle di detenzione non tenevano conto dell’affermazione secondo cui, pur computando lo spazio della cella al netto degli arredi fissi, il ricorrente aveva potuto usufruire di uno spazio non inferiore, se non per brevi tratti temporali e in misura assai ridotta, a 3 mq.

Su questa premessa – che il ricorso non contestava se non in modo generico – il Tribunale, richiamando il provvedimento del Magistrato di sorveglianza, aveva precisato che il ricorrente aveva potuto usufruire, durante il periodo di detenzione, di un consistente numero di ore, al giorno, da trascorrere fuori della cella e di una adeguata offerta trattamentale. Le celle di detenzione, inoltre, erano illuminate, sia naturalmente che artificialmente, riscaldate con termosifoni, e vi si poteva fruire dei servizi igienici in modo riservato e di docce con acqua calda sei giorni a settimana.

Non coglieva dunque nel segno il rilievo di ricorso che l’intero provvedimento fosse stato inficiato dal riferimento ad un errato criterio di computo dello spazio minimo e che, proprio in ragione dell’erroneo criterio il Tribunale avesse omesso di analizzare, o lo avesse fatto solo superficialmente, le eventuali condizioni detentive “compensative”. Il Tribunale, infatti, non aveva omesso di considerare la situazione dedotta sulla base del criterio di computo diverso da quello ritenuto corretto, sicché la decisione si era conformata al principio di diritto per il quale “qualora le dimensioni della camera detentiva, al netto degli arredi fissi, siano superiori a tre ma inferiori a quattro metri quadri, tra le ulteriori condizioni di fatto che, in un giudizio complessivo sulla qualità dell’offerta trattamentale, possono concorrere a determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona, deve essere valutata anche l’eventuale grave inadeguatezza dei locali destinati allo svolgimento di attività lavorativa interna, sotto i profili di deficienze strutturali o dell’esistenza di rischi per la salute dei lavoratori, non potendosi ritenere l’esercizio dell’attività lavorativa di per sé solo un elemento positivo del trattamento”.

Circa l’affermata possibilità di trascorrere fuori della cella un buon numero di ore al giorno il ricorrente non aveva articolato deduzioni contrarie, così come non aveva contestato, con la necessaria specificità, gli assunti circa determinate condizioni detentive: buona illuminazione della cella, disponibilità di acqua calda per la doccia quasi ogni giorno, separazione del locale wc dalla cella, con possibilità di fruizione separata.

Aveva invece dedotto, con il reclamo, la presenza di muffe nella camera di detenzione e nel bagno, le infiltrazioni di umidità nella cella a causa della mancanza di guarnizioni negli infissi, nonché la mancanza di acqua calda nel bagno della cella, ma non aveva in tal modo contrastato le asserzioni del provvedimento impugnato circa la sostanziale complessiva adeguatezza delle celle in ragione di altri profili di indubbia importanza.

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