Respinto il ricorso di un’azienda contro la condanna al risarcimento del danno nei confronti di una dipendente vittima di condotte mobbizzanti

L’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che integra il c.d. mobbing e che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 cod. civ. consiste nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed eventualmente anche leciti) con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza n. 30583/2021 pronunciandosi sul ricorso della società datrice e di due ex colleghe di una dipendente che aveva agito in giudizio al fine di vedersi riconoscere il risarcimento del danno in quanto vittima di condotte mobbizzanti.

Il Giudice del lavoro, all’esito di c.t.u. medico-legale, ravvisato il nesso (con)causale tra i comportamenti censurati e il danno psichico subito dalla ricorrente, aveva condannato la società datrice di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ. e le due ex colleghe a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. al risarcimento del danno biologico nella misura di euro 24.207,00.

In appello, la parte lesa contestava la liquidazione del danno biologico nella sola quota percentuale imputata dal C.t.u. alla concausa lavorativa, assumendo che il danno dovesse essere valutato nell’intero pregiudizio concausato, salva una sua ragionevole riduzione equitativa. Il Collegio territoriale accoglieva il ricorso determinando il risarcimento complessivo in euro 50,925,00.

In sintesi, la Corte distrettuale riteneva: a) raggiunta la prova della commissione, in danno della lavoratrice, di condotte offensive e insolenti, se non talora ingiuriose e di altre condotte che, seppure astrattamente rientranti tra le facoltà datoriali, erano state esercitate con modalità in concreto abusive, perché caratterizzate da atteggiamenti sgarbati ed indebitamente plateali o in spregio rispetto a una equilibrata utilizzazione del lavoro altrui; b) imputabile la condotta alla società datrice di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale, come pure alle dipendenti che tali condotte avevano posto in essere, in questo secondo caso a titolo di responsabilità extracontrattuale.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, la società datrice denunciava violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto in punto di mobbing in relazione agli artt. 13, 32 e 35 comma 1 Cost. nonché dell’art. 41 cod. proc. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) per non avere il giudice di appello adeguatamente valutato le risultanze istruttorie e non avere rilevato che le stesse avevano confermato la totale assenza dell’elemento soggettivo del mobbing in capo alla datrice di lavoro. Deduceva che non erano stati debitamente considerati i seguenti elementi determinanti: la preesistenza di uno stato patologico della lavoratrice, per cui erroneamente l’insorgenza della patologia era stata attribuita a cause lavorative; il carattere sporadico e discutibile degli eventi accaduti, che in ogni caso non avrebbero potuto configurarsi come fatti sistematici e reiterati, con finalità vessatoria; l’assenza di allegazione e di prova di un intento persecutorio.

Gli Ermellini, tuttavia, hanno ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte.

La Corte di appello, infatti, dopo avere analizzato in dettaglio atti e comportamenti lesivi imputabili alle colleghe della danneggiata, aveva ritenuto che questi avessero il carattere della reiterazione e della lesività della dignità della persona e della continuità temporale e che fossero altresì idonei ad assumere portata lesiva ex art. 2087 cod. civ. (“si tratta in sostanza di una pluralità di continue insolenze, comportamenti morbosi e gratuitamente offensivi della dignità della sottoposta, per giunta posti in essere davanti ad altri”).

Il giudice di secondo grado aveva poi desunto, dalle caratteristiche della condotta, la prova dell’elemento soggettivo del mobbing. Al proposito, dal Palazzaccio hanno precisato che, in tema di prova presuntiva, rientra nei compiti del giudice di merito il giudizio circa l’opportunità di fondare la decisione sulla prova per presunzioni e circa l’idoneità degli stessi elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il principio dell’id quod plerumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata, immune da vizi logici o giuridici.

Nel caso esaminato, la sentenza aveva dato conto, puntualmente, delle ragioni poste a base del decisum; la motivazione non era assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale apparivano manifestamente illogici o contraddittori.

Infine, l’assunto secondo cui non sarebbe stata valutata la condizione psichica pregressa della lavoratrice era palesemente infondato. La sentenza, nel riferire degli esiti della c.t.u. medico-legale disposta in primo grado, aveva chiaramente evidenziato che il ruolo delle condotte mobbizzanti era stato concausale della malattia.

La redazione giuridica

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