“Una volta che sia stata proposta domanda di risoluzione e risarcimento integrale del danno, non può ritenersi consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra”: è quanto ha affermato la Corte d’Appello di Napoli in relazione ad un contratto di compravendita immobiliare controverso

La vicenda

La vicenda oggetto di contenzioso traeva origine dal contratto di compravendita con il quale una società aveva acquistato un appartamento ad uso abitativo versando complessivamente la somma di Lire 120.000.000 a fronte del prezzo pattuito di Lire 387.000.000.

Dei 120.000.000 di Lire, almeno 65.000.000 Lire erano state versate dichiaratamente a titolo di caparra confirmatoria e ciò risultava dall’art. 2 del preliminare di vendita, ove era previsto che Lire 5.000.000 erano state versate a titolo di prenotazione e Lire 65.000.000 a titolo di caparra confirmatoria con assegno intestato al venditore.

Con successivo accordo, l’acquirente aveva versato l’ulteriore importo di Lire 50.000.000 senza qualificare tale pagamento.

Veniva incardinato il giudizio presso il Tribunale di Roma definito dalla sentenza nella quale il giudice capitolino precisava dapprima che con l’atto di citazione il venditore aveva chiesto la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. per grave inadempimento del compratore, oltre al risarcimento del danno; nel prosieguo della motivazione il giudice rilevava che con la memoria ex art. 183 c.p.c. la parte attrice aveva modificato le conclusioni dichiarando di recedere dal contratto di compravendita a norma dell’art. 1385, comma 2, c.c. e chiedendo di dichiarare valido il recesso e per l’effetto autorizzare la ritenzione della caparra confirmatoria di Lire 120.000.000 o, in subordine, nella misura di Lire 65.000.000; ancora in via ulteriormente gradata chiedeva di dichiarare risolto il contratto ex art. 1453 c.c. e per l’effetto condannare la società acquirente al risarcimento dei danni.

Per il giudice capitolino le nuove conclusioni introducevano non una “emendatio libelli” “giacché chiedere la risoluzione e recedere costituiscono due atteggiamenti essenzialmente diversi, l’una consistendo nel chiedere al giudice che dichiari il venir meno del vincolo, l’altra nella negoziale iniziativa della parte stessa – valendosi di facoltà che gli sono attribuite– di porlo nel nulla e nella richiesta del giudiziale accertamento della legittimità della stessa”.

La modifica delle conclusioni veniva perciò qualificata come “domanda nuova”, non presa in esame perché la controparte non aveva accettato il contraddittorio.

Come è noto, ai sensi dell’art. 1385 c.c. – che disciplina la caparra confirmatoria – “Se al momento della conclusione del contratto una parte dà all’altra, a titolo di caparra, una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta” (comma 1).

Ma “Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra” (comma 2).

Tuttavia, “Se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali”.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno avuto modo di chiarire da tempo che, con riferimento al rapporto tra i due rimedi previsti dall’art. 1385 c.c. che “una volta che sia stata proposta domanda di risoluzione e risarcimento integrale del danno, non può ritenersi consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra, ponendosi i rapporti tra le due azioni in termini di incompatibilità strutturale e funzionale, altrimenti vanificandosi la funzione della caparra di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno, volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, e consentendosi alla parte non inadempiente di scommettere senza rischi sul processo” (Cass. civ. Sez. Unite, 14/01/2009, n. 553; v. anche Cass. civ. Sez. II, 09/06/2008, n. 15198; Cass. civ. Sez. I, 13/03/2015, n. 5095).

La pronuncia della Corte d’Appello

Per la Corte d’Appello di Napoli (sentenza del 12 dicembre 2019) doveva perciò considerarsi che con la citata sentenza (passata in giudicato), il Tribunale di Roma avesse dichiarato la risoluzione del contratto di compravendita stipulato dalle parti in causa per grave inadempimento della società acquirente, la quale era stata anche condannata al risarcimento del danno.

La domanda proposta dal venditore ai sensi del comma 3 dell’art. 1385 c.c. sulla quale si era pronunciato il Tribunale di Roma aveva, dunque, obliterato ogni possibile utilizzo della facoltà di recedere dal contratto e di ritenere la caparra confirmatoria (eventualmente) versata in base al comma 2 del medesimo articolo; perdendo in tal modo la possibilità di invocare nel giudizio d’appello né in altra sede giudiziale il diritto di ritenere la caparra versata dal compratore.

Nel merito, la corte territoriale ha condiviso in toto la motivazione del primo giudice.

Era pacifico, infatti, che l’importo complessivo di originarie Lire 120.000.000 fosse stato versato e che il contratto nel quale trovava titolo tale attribuzione patrimoniale fosse stato dichiarato risolto.

Altresì pacifico era il fatto che la società acquirente non avesse spiegato domanda riconvenzionale per la restituzione di detta somma nel giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale di Roma.

Ed invero, è noto come nei contratti a prestazioni corrispettive, l’efficacia retroattiva della pronuncia costitutiva di risoluzione per inadempimento (art. 1458, comma 1. c.c.), collegata al venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, comporta per ciascun contraente, indipendentemente dalle inadempienze a lui eventualmente imputabili, l’obbligo di restituire la prestazione ricevuta.

Tuttavia, “le restituzioni non sono conseguenza immediata e diretta della risoluzione, ma traggono titolo dal venir meno, a seguito della pronunciata risoluzione, del titolo giustificativo dell’attribuzione patrimoniale. Le stesse, pertanto, non possono essere disposte dal giudice d’ufficio, non essendo implicite alla domanda di risoluzione ma devono essere disposte a domanda di parte la quale non può essere proposta per la prima volta in grado di appello, qualora la parte abbia proposto, in primo grado, la sola domanda di risoluzione” (Cass. civ. Sez. II, 30/05/2003, n. 7829; Cass. civ. Sez. II, 20/10/2005, n. 20257; Cass. civ. Sez. I, 03/02/2006, n. 2439; Cass. civ. Sez. III Sent., 29/01/2013, n. 2075).

Per queste ragioni, l’appello è stato respinto e confermata la pronuncia di primo grado.

La redazione giuridica

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