Interessante recente sentenza (n.2121/2023 del 24.1.2023) interlocutoria della Cassazione Civile che ha ritenuto opportuno rimettere al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione “…di massima di particolare importanza, se l’art. 230 bis, comma 3, c.c., possa essere interpretato, in considerazione dell’evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso, con una esegesi orientata sia agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost., che all’art. 8 CEDU, come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente “more uxorio”, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità” .

La Suprema Corte ha esposto il proprio orientamento a seguito del ricorso per Cassazione avanzato dalla convivente del titolare di un’azienda agricola deceduto nel 2012. La ricorrente ha chiesto il riconoscimento della partecipazione e dell’esistenza di un’impresa familiare agricola alla quale riteneva di aver partecipato unitamente ai figli del “compagno”, con varie attività svolte negli anni di convivenza.      

Già in I e II grado la ricorrente aveva visto rigettate le domande avanzate nei confronti dei figli del convivente e tese ad ottenere il riconoscimento dell’impresa familiare e la liquidazione della quota a lei spettante.

Nei due gradi di giudizio si è privilegiata un’interpretazione rigida e formale dell’art. 230 bis III comma c.c. che recita: “Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado; gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”; cosi come dell’art. 230 ter c.c., introdotto di recente con la nuova legge sulle Unioni Civili, che pur equiparando ai predetti soggetti il convivente, non può essere applicato al caso di specie per aspetti temporali. La ricorrente infatti ha prestato l’attività lavorativa sino al 2012 mentre la legge sulle Unioni Civili (n.76 del 20.5.2016) è entra in vigore nel 2016. L’art. 230 ter c.c. recita “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”. 

Pertanto, l’unica norma applicabile al caso di specie, ma che non contempla tra i familiari il convivente more uxorio, è l’art. 230 bis c.c., perché l’art. 230 ter c.c. non lo è ratio temporis.

La Corte di Cassazione però ritiene che la ricorrente avendo dimostrato di aver convissuto stabilmente con il compagno, ha diritto ad una rivalutazione del concetto di impresa familiare alla luce della nuova positiva considerazione che la convivenza more uxorio ha acquisito nel tempo nel tessuto sociale e poi, in parte, anche in quello normativo con la legge sulle Unioni Civili.

Infatti, nella parte motiva della sentenza in commento si legge “…l’esclusione del convivente more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell’impresa familiare dell’altro convivente pare porsi in contrasto non solo con l’art. 2 e 3 della Costituzione (come interpretati in materia da Corte Costituzionale) ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE…”. 

La ricorrente aveva convissuto stabilmente, come è emerso in corso di causa innanzi al Tribunale del Lavoro, con il proprio compagno partecipando fattivamente e con regolarità all’attività di impresa dal 2004 sino al 2012 data del decesso.     

La sensibilità della Corte si evidenzia nel riconoscimento della necessità di adeguare la disposizione codicistica al vissuto reale che vede il constate aumento delle convivenza more uxorio la cui esclusione dall’art. 230 bis c.c. comporterebbe anche la lesione dei diritti della lavoratrice (sono questi i casi più frequenti) in violazione dell’art. 37 I comma della Costituzione.

La Corte rammenta poi che l’art. 230 bis c.c. è stato introdotto dalla riforma del diritto di famiglia per la “meritoria finalità di dare tutela al lavoro prestato negli aggregati familiari”. Allo stato la disarticolazione del quadro normativo di riferimento che non ha previsto il coordinamento tra le due norme, comporta il rischio di far rimanere fuori da ogni possibilità di tutela i casi come quello della ricorrente ma le Sezioni Unite, se interpellate, possiedono già tutti gli elementi necessari ad esprimersi favorevolmente includendo nell’art. 230 bis c.c. anche il convivente more uxorio quando la convivenza abbia almeno un certo grado di stabilità.

Avv. Fabrizio Cristadoro

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