Quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102 c.c., comma 1
Con la sentenza in commento, i giudici della Cassazione (Seconda Sezione Civile, n. 26807/2019) hanno invece affermato che: “ove sia accertata la comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi l’apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c.”, in materia di distanze legali.
La vicenda
Con atto di citazione, l’attrice convenne davanti al Tribunale di Torino, sezione distaccata di Susa, i proprietari dell’immobile confinante, domandandone la condanna alla riduzione in pristino di una serie di costruzioni (una sopraelevazione, una finestra, un’antenna, un balcone) realizzate in violazione delle distanze legali, nonché alla cessazione di immissioni moleste ed infiltrazioni ed al risarcimento dei danni.
I convenuti, oltre a contestare la fondatezza delle pretese attoree, ne domandarono in riconvenzionale la condanna alla riduzione in pristino del tetto e del solaio, nonché di due lucernai, di una copertura del balcone, oltre al risarcimento dei danni per altre opere eseguite.
All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Torino, con sentenza confermata in appello, condannò sia i convenuti che la parte attrice al ripristino dello stato dei luoghi relativamente alle rispettive proprietà.
I motivi di ricorso
Contro la decisione della corte d’appello torinese, i proprietari dell’immobile confinante, hanno proposto ricorso per cassazione, lamentando tra gli altri motivi, la violazione e falsa applicazione degli artt. 905, 1102 e 1139 c.c.
Secondo la corte territoriale gli immobili delle parti non costituivano un condominio edilizio, trattandosi di una mera “comunione di un cortile”, sicché dovevano essere rispettate le norme in tema di distanze legali per l’apertura di vedute (in particolare, l’art. 905 c.c.).
Al contrario, i ricorrenti sostenevano che dovesse applicarsi l’art. 1102 c.c. in materia di “uso della cosa comune” secondo il quale “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto . A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”.
Il giudizio di legittimità
Dapprima, i giudici della Suprema Corte hanno precisato che l’indagine del giudice di merito diretta a stabilire se la situazione obbiettiva dia luogo alla presenza di più unità immobiliari o più edifici aventi parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c. e dell’art. 1117 bis c.c. (se, cioè, sussista la relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega le unità immobiliari di proprietà esclusiva a talune cose, impianti e servizi comuni, i quali siano contestualmente legati, attraverso la relazione di accessorio a principale, con più edifici o immobili, in modo che l’uso del bene comune non sia suscettibile di autonoma utilità, ma solo correlato al godimento del bene individuale) si risolve in un apprezzamento di fatto, che esula dal sindacato di legittimità, quando tale giudizio sia sorretto da motivazione logica ed immune da errori di diritto.
Quanto al “merito” della vicenda, la Corte di Cassazione ha richiamato il principio di diritto più volte affermato dalla giurisprudenza secondo cui “quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102 c.c., comma 1, in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri comunisti”.
L’apertura di vedute su area di proprietà comune
In tal senso, l’apertura di vedute su area di proprietà comune ed indivisa tra le parti costituirebbe opera sempre inidonea all’esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio “nemini res sua servir, che per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono ben fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta, pertanto, anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva, con il solo limite, posto dall’art. 1102 c.c., di non alterare la destinazione del bene comune o di non impedirne l’uso da parte degli altri comproprietari (Cass. Sez. 2, 14/06/2019, n. 16069; Cass. Sez. 2, 26/02/2007, n. 4386; Cass. Sez. 2, 19/10/2005, n. 20200).
Ma “ove sia accertata, come nel caso di specie, la comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi (ed allorché, come nella specie accertato in fatto, fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell’area scoperta, ai sensi dell’art. 1117 c.c.), l’apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c.”.
La decisione
Il partecipante alla comunione del cortile non può, dunque, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell’immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all’art. 1102 c.c., il quale non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite (Cass. Sez. 2, 04/07/2018, n. 17480; Cass. Sez. 2, 21/05/2008, n. 12989).
In definitiva, il ricorso è stato rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione.
La redazione giuridica
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